Bibliografia
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Cari amici, vi invio alcune pagine che già da quasi un anno ho buttato giù, per arricchire il patrimonio storico culturale oggetto della nostra passione. Questa anteprima che vi propongo di lettura, è solo per stabilire se ne vale la pena proseguire il lavoro, per cui chi meglio di voi può dare critiche in merito? Cordialmente as2367 Ringrazio anticipatamente per la pazienza accordatami.
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Introduzione
Nel periodo compreso tra gli anni ’60 e gli anni ’70, l’automobile sembra avere raggiunto la piena maturità; le innovazioni tecnologiche, ben si sposano al vestito che il designer crea sui modelli che i costruttori propongono.
Fiat, Lancia, Alfa Romeo, Lamborghini, Ferrari, Autobianchi, Maserati, rimanendo in tema di automobilismo Italiano, sono automobili ritagliate su misura per ceti e classi sociali di quegli anni; ma tutte quante contraddistinte da un forte carattere personale.
Ogni modello diverso dall’altro, alcune delle quali, nate e sviluppate nelle corse, e che in queste tengono alto il nome dell’Italia in tutte le piste del mondo.
La Lancia rimane ancora un prodotto destinato ad una utenza del ceto medio alto, infatti il blasone della quale è accreditata, per la stragrande maggioranza del popolo automobilistico di quegli anni, risulta un sogno irrealizzabile per via dei costi proibitivi, chi se la può permettere sono facoltosi professionisti ed esponenti dirigenziali privati o di stato dell’alta finanza dell’epoca.
A offuscarne l’immagine, fù la perdita della propria identità, nel momento in cui scivolò tra le mani di casa Fiat, resasi necessaria per una questiona di marketing.
Non stò li a dilungarmi sullo stile, la classe e l’innovazione tecnologica rappresentata dalla Lancia negli anni ’50 e ’60 considerati d’oro per il costruttore e già ben messi in risalto in altre bibliografie.
Ritornando agli anni, a cui facevo inizialmente riferimento, erano anni difficili, dettati dai motti rivoluzionari cosiddetti “sessantottini”, dalla crisi economica, da quella petrolifera a quella del terrorismo, in controtendenza la dirigenza Fiat, coraggiosamente, intraprese lo studio di un modello, che per certi versi oserei definire:”l’ultimo canto del cigno” la Lancia Beta Montecarlo.
L’innovazione che il nuovo modello portava in campo, era una ventata di sfida, dettata dalla necessità di ritrovare quel filo di continuità rappresentato nello stile e nella classe delle Lancia di un tempo, nonché l’anticipazione dei tempi, alla motorizzazione dei giovani rampolli di famiglie-bene.
La giovane mano dell’epoca, dell’intraprendente Paolo MARTIN, a molti sconosciuto, ma a ragione di cronaca personaggio a cui si deve la piena paternità della Lancia Beta Montecarlo, riusciva a modellare con forme armoniose ed eleganti, un coupè, che sembrava sprigionasse alla sola vista, doti di potenza superlativa abbinate ad una sportività da prima della classe, e la motorizzazione, una vera chicca per l’epoca, oggi viene criticata, non tanto quanto per le generose prestazioni, ma per il fatto che la Lancia Beta Montecarlo sembra essere avvolta da una eterna giovinezza, che ai nostri giorni, risulta essere ancora un modello così all’avanguardia ma con prestazioni, per i canoni attuali, deludenti in barba alla linea, che di fatto avrebbe dovuto promettere prestazioni più brillanti, da qui la necessità di tanti appassionati, a partire dallo scrivente, nel cimentarsi a rendere più performante la potenza, non per stare al passo con i tempi con gli attuali modelli, ma per dare il giusto tono a quello che rappresenta il modello in questione nelle sue forme
Per fare un esempio pratico: “è come privare un caccia dell’aeronautica militare del proprio armamento”.
La robotizzazione ha stravolto l’anima delle catene di montaggio, quanto prima, su ogni particolare, veniva posata la mano dell’uomo, l’automobile era un vanto e la gratificazione, espressione massima dell’operaio, che amorevolmente ne curava l’assemblaggio e lo lasciava solo quando era pronto per la commercializzazione del prodotto.
Le imperfezioni facevano parte del gioco, ed erano il segno tangibile che contraddistingueva i pregi del manufatto come espressione artigianale.
Un po’ meno i prodotti utilizzati, controvertibili in uno sfrenato risparmio a sfavore dei materiali utilizzati per far fronte ai lauti guadagni incamerati dalle grosse aziende automobilistiche e non.
Inevitabilmente, la suddetta politica non fece altro che decretare il surdimensionamento dei prestigiosi marchi che ebbero a portare a conoscenza del mondo intero, la qualità del Made In Italy.
Non nascondo una punta di patriottismo sulla questione in argomento, ma la globalizzazione, già iniziata verso la fine degli anni ’70, con il sistema di robotizzazione universale, ha finito per classificare le automobili in tre principali categorie: monovolume, station wagon e berline, a cui abbinare nomi o meglio numeri ancora più anonimi e continuando su questa scia, è come se nell’uomo, avanzi il timore di rendere esplicita la propria personalità nella conduzione dell’automobile, mascherandone di fatto le reali potenzialità all’utenza a cui essa è destinata.
Ai giorni nostri, la sobrietà è di rigore, la soddisfazione delle forme, intesa come arte, è diventata una prerogativa per pochi eletti, ed in tutto ciò, la persona comune, a mio giudizio ci ha rimesso e non poco, a favore del comune denominatore così detto:”comfort”.
Ma ritorniamo alla Lancia Beta Montecarlo, ultimo concetto di dream car scomparsa, che forse sarebbe potuta essere alla portata di molti.
Su questo modello, tutto è personale, dai cerchi ruota da 13 pollici, misura che per la prima volta adotta una Lancia, all’innovativo disegno a clessidra unico nel suo genere; esclusivi sono: la fanaleria anteriore, con disegno dei fari trapezoidali (nella serie destinata al mercato europeo), alla scocca del tipo portante, quindi raffrontando il modello con gli altri della famiglia beta, le uniche cose che condivideva, consistevano nella motorizzazione, alcune parti della sospensione ed il sistema frenante, quest’ultimo il vero tallone d’Achille della Lancia Beta Montecarlo; esclusivi, erano altresì, i paraurti in materiale plastico di apposito disegno, le scocche delle sedute interne, anch’esse di plastica, e nella AS/T il sistema di ripiego della capotte (brevetto pininfarina). Ricordiamo inoltre, che tutte le Lancia della famiglia Beta, venivano prodotte presso gli stabilimenti di Chivasso, mentre la loro sorella “speciale” la Lancia Beta Montecarlo, veniva interamente costruita ed assemblata negli stabilimenti della Pininfarina siti in Orbassano; solo questo, già bastava ad identificare la bontà del progetto, dove la realizzazione dello stesso, veniva prodotto in una azienda
prima nel settore in tutta Europa, per lo sviluppo della ricerca e per quanto riguardava quello del designer.
Nella bibliografia curata da Bruno VETTORE, si racconta delle strategie operate dal gruppo Fiat, per la collocazione sul mercato del progetto X-1/20 e quindi per la sua successiva commercializzazione con il marchio Lancia, evidentemente, nel suddetto contesto, nell’azienda già si maturava da tempo, l’idea di sostituire nel mondo delle corse la Lancia Stratos o quantomeno svilupparne le potenzialità con un prodotto più affine ai dettami FIAT, è in effetti un assaggio di quello che avrebbe regalato in seguito la Montecarlo Turbo, venne anticipato con il prototipo abarth SE 030, in occasione del Giro d’Italia, con un secondo posto maturato ed inatteso al di là delle più rosee aspettative dell’azienda.
Di conseguenza la presentazione della Lancia Beta Montecarlo, avveniva tra i migliori auspici, anche se a dire il vero del prototipo SE 030, aveva ben poco da spartire, almeno per quanto riguardava la cilindrata e parte della meccanica nonché lo stravolgimento della carrozzeria.
A distanza da quel lontano 1975 anno di nascita della Lancia Beta Montecarlo, a oggi, essa è entrata di diritto a far parte di quella schiera di automobili definite con il pseudonimo di “storiche”, e che rimanendo in casa Lancia, solo altre due a mio avviso hanno maturato “nonostante la giovane età” il diritto di fregiarsene: la Lancia Rally 037 e la Lancia Delta S4. Da quest’ultima in poi, credo proprio che sia terminata un’epopea: il connubio tra l’uomo, quale creatore dell’automobile e l’automobilismo stesso, immagine riflessa della creatività dell’uomo.
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Nel 1975, in un caldo pomeriggio di settembre dell’entroterra siciliana, mi appoggiai alla ringhiera dal balcone di casa, posto al settimo piano di un caseggiato condominiale, e come ero solito fare nei momenti di ozio, fantasticavo sul mio futuro da indipendente, sul lavoro, cosa mi avrebbe riservato il futuro, quale automobile sarei riuscito ad avere da grande, strano a dirsi, ma in quel periodo le automobili che ammiravo di più, erano le Alfa Romeo, e mentre pensavo a tutto questo, il mio sguardo era
rivolto alla piazza sottostante, dove lo scarso traffico di quel tempo mi permetteva di distinguere il transito di una gazzella dei Carabinieri, il passaggio di qualche vespa, una corriera e tra le altre cose distinguevo parcheggiate le solite automobili.
Tra quelle auto, il mio sguardo si posò su una vettura che non riuscivo a catalogare tra quelle che ero in grado di conoscere.
Dalla distanza sembrava assomigliare ad una ferrari o giù di li, era di colore azzurro chiaro con un tettuccio simile alla 500 e le pinne che raccordavano il tettuccio al posteriore, la prima impressione fu quella che si trattasse proprio di una ferrari, dalle mie parti non se ne era mai vista una, per cui incuriosito usci di casa e mi precipitai in strada dove era parcheggiata, per poterla vedere più da vicino.
Mi avvicinai sempre più, quando le fui accanto, tanto da poterla accarezzare, rimasi sorpreso e nel contempo esterrefatto nel momento in cui constatai che si trattava di una lancia.
Fino a quel momento, le uniche che avevo visto, erano delle fulvia coupe, fulvia c, qualche flavia ma non avevo mai visto nulla di simile in circolazione.
Me la mangiai letteralmente con gli occhi, volendo utilizzare un linguaggio dei giorni nostri, la scannarizzai in ogni dettaglio: gli interni con due posti secchi, quelle pinne posteriori che la facevano tanto ferrari, quel muso così innovativo, fino a quel tempo. si era abituati ai paraurti in acciaio con rostri in gomma, così bassa da poterle stare una spanna più in alto, per quanto in quel tempo ignorante nel settore, tutto mi portava a credere che si trattasse di un modello nato per le corse, e forse sotto sotto non mi sbagliavo.
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In quell’ istante felice della mia giovinezza, d’un tratto mi si avvicinò un signore dall’aspetto distinto di mia conoscenza, garbatamente lo salutai e lui ricambiò, senza dire nient’altro inserii la chiave nella serratura, aprì lo sportello e si sedette al posto guida, feci appena in tempo a vedere gli interni che mi sembrarono ancora più belli, richiuse la portiera, mise in moto e dopo una breve retromarcia innestò la prima e partì allontanandosi, in quel momento magico ma triste nello stesso
tempo, quanta amarezza provai, mi sentivo come un bambino al quale avevano tolto della cioccolata dalle mani, e continuavo a fantasticare come sarebbe stato bello salire da passeggero su quell’automobile per provare l’emozione di un giretto.
In famiglia l’unica auto che si possedeva era una fiat 500 f che mio padre acquistò nel 1966 e che utilizzava per lavoro percorrendo mediamente 60-70 km al giorno per recarsi a Caltanissetta dove era impiegato come macchinista nelle Ferrovie.
Ritornato a casa, parlai di quell’auto alla mia famiglia con tanto entusiasmo, tanto che mio padre mi riprese dicendomi che noi non avremmo mai potuto permettercela e che in ogni caso la sua 500 la considerava la migliore auto del mondo e che non l’avrebbe cambiata mai per nessun motivo.
Sicuramente era un periodo in cui correvano tempi duri, e dove tutto si faceva con sacrificio: i prestiti in banca per la casa da pagare, il mantenimento di noi figli a scuola, la spesa al negozio di generi alimentari, dove si pagava a fine mese (era un’usanza di quel tempo), e non per ultimo i viaggi che mio padre affrontava giornalmente con la sua “automobilina”.
Certo era una grande faticaccia economica mantenere tutti questi impegni con un solo stipendio, e quindi per certi versi la parola d’ordine in casa era “solo ciò che è necessario”, ma dopo tutto, quanto asseriva che la 500 è la migliore auto del mondo, non sbagliava affatto, tanto è vero che a distanza di 43 anni, svolge ancora onorato servizio anche se meno gravoso rispetto all’utilizzo a cui veniva sottoposta prima.
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Passato quel pomeriggio strabiliante, il giorno successivo, nonché tutti gli altri a venire, non perdevo l’occasione per incontrare quella speciale automobile, che francamente vedevo di rado e sempre di sfuggita.
Quelli erano gli anni, dove la passione per le corse, le si seguivano per la maggiore in televisione, ma mi reputavo uno fortunato per avere un autodromo,”si fa per dire a quattro passi” da dove abitavo, e precisamente a Pergusa a circa 25 chilometri; certo in automobile a non più di 30 minuti di percorrenza, ma quanto il percorso lo si doveva affrontare in bicicletta “una vecchia Graziella” le cose cambiavano radicalmente. Un appuntamento al quale immancabilmente mi presentavo ogni anno, era il: ”Gran Premio del Mediterraneo”, e nell’occasione, in compagnia del mio carissimo amico Paolo, armati di tutto punto, il venerdì mattina si partiva in bicicletta con zaino in spalla e tenda al seguito, per trascorrere tre memorabili giorni, dove dal vivo si poteva ammirare non solo la gara clou della formula 3000 internazionale, ma tutte le altre di contorno, senza contare che al calare della sera, da un foro già esistente nella rete che delimitava il circuito, si percorrevano circa 2 chilometri di pista a piedi in senso contrario aiutati da una torcia del tipo di quelle che si usano quanto si va a pesca, più che torcia l’avrei definito un vero e proprio faro allo iodio, per andare a sbirciare nei box, e poter vedere da vicino i bolidi che avevano sfrecciato nell’arco della giornata. Una cosa del genere ai giorni nostri sarebbe impensabile se non addirittura pura follia, ma a quel tempo era possibile, quando i meccanici delle scuderie ci vedevano arrivare, nei nostri confronti non mostravano nessuna sofferenza, anzi nell’avvicinarci, con molta simpatia facevano segno di aiutarli a spingere qualche auto da corsa e dopo questa accoglienza quasi sempre ci donavano adesivi di sponsor, qualche volta per premiare questa nostra “temerarietà”, ci scappava qualche pezzo forte, come quella che mi capitò: “una tuta da meccanico di colore rosso con tanto di sponsor”, sembrava quasi come aver fatto tredici.
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Con rimpianto, ricordo quei momenti magici, dove tutto sembrava avere un odore diverso, non per ultimo, quello rilasciato dalle auto da corsa che aleggiava lungo l’anello del circuito, dell’inconfondibile bruciato di olio di ricino, profumo prezioso per gli appassionati di un tempo che non respireranno mai più ma che conserveranno nella memoria più intima.
Fù proprio in questo circuito, nella lontana estate del 1978, che avvistai per la prima volta, quella che avevo definito al mio primo incontro un ‘auto nata per le corse”, si proprio così, ebbi il privilegio di conoscere la lancia beta montecarlo turbo, avvolta in un colore arancio, intermezzato da fasce zebrate di colore nero, nella sua imponente maestosità, sembrava un’auto proveniente dal futuro, alla sola vista, incuteva timore, figuriamoci agli avversari. Quanto la vidi girare in pista, appariva ancora più sfuggente di quella vista qualche anno prima, evidentemente questa sembrava essere una costante dalla quale mi risultava difficile sottrarmi, eppure ad ogni passaggio affrontato dal mio punto di osservazione, non riuscivo a distoglierne lo sguardo, rimanendo estasiato da tanta bellezza, eleganza e potenza.
Giro dopo giro, arrivò il momento dell’ultimo, ma in quella giornata agonistica, non ero minimamente interessato al risultato della gara, ma solo a posare gli occhi sul quel mostro di potenza, so solo che passati quei giorni, per poterla rivedere, anche se sotto altre vesti, sono dovute trascorrere ben 28 primavere, in occasione dell’incontro avvenuto nel maggio 2006 nel day a Fiorano .
Nel 1980, mi inserisco nel mondo del lavoro, per l’appunto mi arruolo presso l’Arma dei Carabinieri, la mia prima destinazione è un piccolo centro dell’interland torinese un paesino industriale avente per nome Pianezza. Finalmente posso aspirare alla tanto agognata libertà personale, economica, mi accingo ad acquistare la mia prima automobile, si tratta di una fiat 128 3p di cilindrata 1100 di un colore azzurro chiaro, fino a quel momento il mio interesse più forte, era rappresentato dal lavoro, ancora fatto per passione e subito a ruota l’indipendenza nel muovermi
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liberamente. Ecco che a distanza di qualche mese dall’acquisto, immancabilmente faccio fuori il motore, grazie a questo spiacevole episodio, avrò modo di conoscere quello che per me sarà un grande amico, ma soprattutto un vero mago dei motori, per prendere in prestito le parole di un “grande”, è uno di quelli “che da del tu ai motori”, infatti il meccanico a cui mi affido si chiama Giamberto BOLLEA e guarda caso abita proprio dove ho il mio posto di lavoro a Pianezza.
Al primo incontro, ho un sussulto, infatti quella che a prima vista dovrebbe essere un’officina, di fatto assomiglia tanto ad una
stalla, infatti non a caso, dando un’occhiata in giro, vedo da una parte trattori, da un’altra galli ruspanti e da un’altra ancora mucche da fare invidia a quelle ticinesi, ma non è finita, in un angolo di una capanno, intravedo una fiat 124 abarth nella tipica livrea bicolore bianco nero e in un altro attiguo, una pantera de Tommaso anch’essa bianca e nera, quello che a prima vista poteva avermi impressionato in modo negativo, in controtendenza alla vista di quei due bolidi il buon senso mi suggerisce di aver trovato una persona che sa il fatto suo.
Grazie al mio nuovo amico Berto, riesco sempre di più ad apprezzare la tecnica applicata sui motori e di giorno in giorno il bagaglio di esperienza che accumulo e’ di tale portata da fare invidia a chi questo sapere lo deve per professione, ma come ben spesso capita, alla sete di conoscenza di un appassionato no ce mai fine, ed è proprio in questo che dove gli altri si arrendono entra in gioco la tenacia chi di questa passione ne ha fatto uno stile di vita.
Ritornando alla fiat 128 3p, sostituii il motore e roba da non credere, con tanto di scarico libero che usciva lateralmente da sotto la fiancata lato guida e con una cavalleria di oltre 80 puledri; uno spettacolo, ma anche se all’epoca tutto questo si poteva fare, nell’aria si sentiva che qualcosa stava cambiando anche se in peggio a scalpito della sopravivenza dell’estro e dell’inventiva di chi sapeva giocare con quegli strumenti. Di li a poco questa volta la 128 3p la feci completamente fuori e per
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fortuna senza conseguenze fisiche per il sottoscritto; subito alla ricerca di una nuova automobile si fa per dire e questa volta la mia scelta, cadde su un vero mostro, era una lancia beta coupè 2000 con il classico colore chiaro metallizzato, da un coupè ad un altro, ma con una vocazione più sportiva, una due più due e per giunta con un biglietto da visita che nella cilindrata rappresentava il top delle coupè italiane. Vista la cilindrata e le prestazioni, e non ritenendo opportuno intervenire su una eventuale elaborazione, il mio carissimo amico Berto riusciva ugualmente a coinvolgermi, convincendomi a modificare il carburatore,
un’altra musica credetemi, sembrava che di colpo la ripresa fosse più che raddoppiata.
Ma anche questa, ahimè copiò integralmente la fine della 128 3p, e ancora una volte senza conseguenze fisiche per il sottoscritto.
Quel motore bialbero mi aveva lasciato il segno, e così per la terza volta, rimanendo in casa fiat, volli optare per una berlina, questa volta puntai su una 131 racing; all’interno un salotto di lusso, ma all’esterno sprizzava sportività da ogni parte.
Della lancia beta montecarlo non avevo più nessun ricordo, perché vederle in giro, era più difficile di quanto uno pensasse, e oltre tutto non facevo nulla per poterla cercare, evidentemente per me, in quel momento della mia vita, era più interessante scoprire l’arte del consumismo, piuttosto che andare a scavare nella recrudescenza del mio più profondo io.
Ma ecco che un bel giorno percorrendo Corso G. Cesare a circa metà della sua lunghezza, in una concessionaria di automobili ne intravidi una; e quello che più mi colpì, fu il colore di un vivo arancio. Mi avvicinai per guardarla meglio, ma era ridotta piuttosto male, nonostante tutto, sentivo che dentro di me, alla vista di quell’automobile, si era riaccesa una fiammella che sembrava ormai spenta, ma dal momento che ero riuscito a trovarne una, mi convinsi che era possibile ricercarne delle altre e di conseguenza mi comportai. Dopo vari estenuanti tentativi, ne vidi una in una piccola auto concessionaria di corso Valdocco, ma anche questa sembrava essere stata sfruttata all’osso tant’è mi convinsi che sarebbe stato impossibile trovarne una di seconda
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mano in ottime condizioni. Ancora nel 1985, la beta montecarlo, figurava nei listini del nuovo di casa Lancia, ma per le mie finanze aveva un costo non indifferente, per cui continuavo nella ricerca, speranzoso di trovare un esemplare in ottime condizioni.
Ad accelerare questa ricerca e a convincermi nell’acquisto, fu la ulteriore e per l’ennesima volta, la distruzione del 131 racing. In un pomeriggio primaverile del 1986, passeggiando nei pressi della stazione di Porta Nuova, vidi una concessionaria dal nome stilauto, all’interno vidi una stupenda lancia beta montecarlo di colore bianco con tettuccio apribile, apparentemente in condizioni
impeccabili, entrato, contattai il concessionario il quale dopo avermi illustrato tutte le peculiarità del mezzo, con sorpresa mi comunicava che vi era un solo piccolo inconveniente ossia il motore fuso. Rimasi di stucco, ma questi subito puntualizzò che non sarebbe stato un problema rimetterlo a posto. Ormai era fatta, ma prima di cimentarmi nell’acquisto, contattai il mio amico Berto, questi mi consigliò di comprarla così come si trovava, anche perché avrei potuto trattare abbondantemente sul prezzo d’acquisto, che poi lui avrebbe provveduto a sistemarla, ma prima di agire in tal modo, gli domandai se era disposto a vendermi il suo 124 abarth, mi rispose che quella non l’avrebbe mai venduta, ma da lì a breve, le cose non andarono come in effetti mi aveva risposto.
Detto fatto, ricontatto la concessionaria Stilauto, ci accordammo sul prezzo di acquisto, e caricata la lancia beta montecarlo su un carro attrezzi, messomi a disposizione dallo stesso venditore, la feci trasferire dal mio amico Berto, ancora non credevo ai miei occhi, finalmente avevo coronato il mio sogno da adolescente, lungo il tragitto immaginavo già come mi ci sarei immedesimato all’interno, una sportiva senza compromessi con due posti secchi, un motore posteriore da 2000 cc ed una cavalleria di tutto rispetto, non nascondo l’idea di quanti cuori avrei infranto ogni qualvolta sarebbe salita a bordo una ragazza, in effetti il mio sogno al di là di ogni aspettativa, era appena iniziato.
Dopo circa 10-15 giorni, la monte era pronta e con palpitazione, mi lasciai scivolare all’interno dell’abitacolo, in quel momento
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mi sentivo il padrone della strada, la prima cosa che mi colpì dell’interno, fù il parabrezza spiovente e la seduta che non mi consentiva di stabilire gli ingombri della carreggiata e tanto meno dove finisse l’anteriore, tanto era lungo, dopo aver familiarizzato con i vari comandi ben dislocati e tra l’altro di facile lettura, girai la chiave di accensione e sentii un rombo dietro le spalle come se tra abitacolo e vano motore, non ci fosse stata nessuna paratia, istintivamente girai la testa e non essendo abituato ad uno spazio
così ridotto, mi ritrovai immediatamente a sbattere quasi con il naso contro il lunotto .
E si, dovevo proprio abituarmi a quella convivenza, dopo tutto non si trattava di un’auto normale ma una di quelle il qui seguito, aveva dato i natali alla montecarlo turbo e alla rally. In quel felicissimo giorno della mia vita, mi sentivo come un pilota di formula 1. Le emozioni che provai non sfuggirono al mio amico Berto, che arrivò al punto di dirmi che era più bella della sua 124 abarth, non so se l’abbia asserito perchè la cosa mi facesse piacere o perché ci credeva realmente ma mi fece alcune raccomandazioni, nel fare attenzione visto che si trattava di una trazione posteriore e per finire quella di non schiantarla, sarebbe stato un vero peccato. Gli unici interventi che all’epoca operò sul motore, furono l’apertura in contemporanea dei due corpi del carburatore, e l’accensione elettronica, ebbene per l’epoca, andava che era una scheggia. In quel periodo il mio lavoro, lo svolgevo al nucleo radiomobile dei carabinieri di Torino in Via Veglia, e giornalmente guidavo un’alfetta 1800, tanto per capirci una delle prime risalenti al 1973, una quattro fari, e volendo fare un raffronto con la monte posso asserire che quet’ultima non solo era più veloce in termini di prestazione massima, ma anche in fatto di ripresa, per cui da buon lancista posso diagnosticare un risultato di 1-0, certo qualcuno potrebbe anche dirmi che le cilindrate diverse, potevano favorire la monte, ma in fatto di peso potenza e in virtù dell’alimentazione con i due doppi corpi a favore dell’alfa, i conti dopo tutto si pareggiavano. In ogni caso, su entrambe le auto, quelli che per molti conducenti potevano
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definirsi delle anomalie, tipo il cambio dell’alfa o i freni sulla monte, per l’appassionato erano invece delle peculiarità dove il “pilota” poteva dimostrare la sua abilità, nel mio caso, asserivo che dopo tutto i freni servivano solo per fermarsi per cui l’importanza degli stessi era superfluo, ma in realtà non era proprio così, dopo tutto le sconfitte sono sempre difficili da accettare.
In quel periodo la monte la usavo come una normale utilitaria, per gli spostamenti in città, per i fine settimana, per andare in montagna, sulla neve, insomma con ogni condizione di tempo, e puntualmente il suo ricovero notturno, consisteva nell’avere per tettoia, le stelle del firmamento così come io stesso la definisco, gli appioppai pure un nome:”carolina” perchè mi ricorda tanto una vacca, che amorevolmente curava il padre del mio amico Berto e prendendolo come esempio anch’io mi ero riproposto di fare lo stesso con la mia monte; questa volta niente più incidenti, distrazioni o quanto altro potevano separarmi da lei, anzi a dirla in breve, proprio con lei, ho avuto modo di affinarmi nella tecnica di guida, e in uno stile che contraddistingue ogni buon lancista sulle strade di tutti i giorni.
Limone Piemonte, Giaveno (località aquila), Sestriere, Gressonej, Monte Bianco, Saint Vincent, Val Varaita, Stresa, Peceto, Cambiano, Volpiano, Biella, Mosso Santa Maria, Santa Margherita Ligure, erano solo alcuni dei posti dove solitamente passavo i fine settimana, quanto ero libero da impegni di lavoro e puntualmente la mia monte partiva, arrivava e ritornava al punto di partenza, senza mai darmi problemi di sorta, mai una volta che mi si scaricasse la batteria, mai un inconveniente meccanico, di quanto la utilizzavo, a ricordo, non ho mai tenuto a mente i chilometri percorsi, l’importante era e resta la manutenzione con ottimi prodotti, mi ricordo che all’epoca per il cambio olio, utilizzavo il vs corse della Fiat.
A Dicembre del 1986, decido di affrontare il primo vero e lungo viaggio con la mia compagna fedele, in occasione delle festività
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di quel Natale, quindi partenza da Torino con destinazione Piazza Armerina in provincia di Enna. Nell’occasione mi programmo il
percorso, e decido per la Torino-Genova-Livorno e Roma Via Aurelia, quindi la Salerno Reggio Calabria, traghetto Villa S.G.- Messina e successivamente proseguire sulla Statale litoranea fino a Catania e sulla statale per Piazza Armerina, evitando di proposito l’autostrada, per ammirare e godermi il paesaggio della tappa siciliana. Da come si può vedere, un vero e proprio raid di circa 1700 km, nulla da invidiare ad una mille miglia o qualsivoglia riedizione storica affrontata ai giorni nostri e per giunta chilometri percorsi senza soluzione di continuità, ad eccezione della soste per il pieno di carburante e qualche caffè. Ebbene, la sera del 12 dicembre 1986, alle ore 21,00 circa, incomincio il mio viaggio con partenza da Cambiano, dove posso contare nell’appoggio logistico di alcuni miei parenti, da lì all’imbocco dell’autostrada sono due passi, da conti fatti a tavolino, l’arrivo a Piazza Armerina, è previsto intorno alle ore 12,00 del giorno successivo; le condizioni climatiche sono favorevoli, con un bel cielo stellato ma con temperature in prossimità allo zero.
Dopo una buia notte di viaggiare per oltre 1000 km, non sopraggiungono inconvenienti di sorta, tutto fila liscio, la tabella di marcia teorica, sembra rispettare alla lettera quella pratica; dopo avere oltrepassato il raccordo annullare a Roma, il tempo sembra cambiare, infatti cominciano a scendere giù le prime goccioline di pioggia, alle prime luci dell’alba, mi trovo a ridosso della terra calabrese, da qui sembra scatenarsi un vero e proprio diluvio, tuoni, lampi, fulmini e per finire una fitta grandinata, questo mal tempo sembra accompagnarmi con rassegnazione per il resto della durata del viaggio, subito dopo Falerna nei pressi di Lamezia Terme, la monte sembra tossire, la cosa mi allarma, ma fiducioso mi convinco possa trattarsi della calotta dello spinterogeno presumibilmente inumidita o bagnata a causa del temporale che perversa. Intorno alle ore 09,30, Tra gli svincoli di Gioia Tauro e Palmi mentre procedo ad una velocità di circa 90 km/h sento un forte rumore provenire dal gruppo propulsore, la
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monte va ugualmente e se mi mantengo ad una velocità di 100 Km/h il rumore scompare, sopra o sotto tale limite il rumore si
ripresenta, un bell’enigma. Decido di uscire a Palmi per fare controllare la Monte presso un’autofficina, che trovo subito dopo lo svincolo autostradale; dopo circa 60 minuti di attesa, mi si presenta il capo officina, un giovane di circa trent’anni che sentito il mio parere, la prima cosa che fa è quella di smontare la calotta pulirla e asciugarla, rimette in moto, e come per incanto la monte sembra girare bene solo un leggero ticchettio
proveniente dal basamento del motore, ma nessun segnale di fumo o chissà cos’altro che mi possa impensierire per il proseguo del viaggio. Mi rimetto in marcia, ma dopo pochi chilometri l’anomalia si ripresenta, in li per li penso alle possibili dilatazioni degli organi meccanici causate a seguito del lungo viaggio, a qualche cuscinetto di banco saltato non so come, sta di fatto che se mi mantengo a velocità stabilita di 100 km/h non si sente un bel niente. Fra tribolazioni e ansie, finalmente arrivo a Piazza Armerina, anche se ho dovuto modificare per cause di forza maggiore l’itinerario previsto alla partenza, ma dopo tutto, oltre al problema presentatomi, con quel mal tempo non so fino a che punto mi sarei potuto godere il paesaggio; ah dimenticavo l’arrivo previsto, a questo punto slittava, protraendosi di oltre quattro ore con arrivo alle ore 16,20 circa. Il giorno successivo portavo la monte da un mio amico meccanico, Franco, esperiente nel suo campo, senza farmi aprire bocca, prese uno strumentino che aveva tutta l’aria di un registratore con relativo microfono e altoparlante, con il motore al minimo, appoggiò il microfono al basamento del motore e di tanto in tanto lo spostava come per seguire e sentire i movimenti delle bielle, dopo un pò mi guardò sorrise e aggiunse, nulla di grave, l’albero motore è letteralmente rotto in due tra la terza e la quarta biella. Incredulo, per la diagnosi sentenziata continuavo a domandargli come era possibile che si fosse verificato un simile guaio, ma anche lui non sapeva spiegarselo, sta di fatto che nel momento in cui lo smontò, l’albero si presentava rotto in due, a questo punto l’unica possibilità ad una risposta, era quella di un albero difettoso.
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Contattai il mio amico Berto di Torino, che sentita la magagna capitatami, anche lui si stupì e mi promise che quanto prima ne
avrebbe spedito uno particolare, in effetti dopo circa una settimana mi arrivò l’albero motore cosi come promesso, ma questa volta me ne rifilò uno alleggerito, equilibrato e con tanto di bronzine, a dir poco rispetto a quello originale, pesava, se ben ricordo , almeno il 20% in meno; appena fu montato, la monte immediatamente riparti, ed è da allora fino ad oggi che quell’albero continua a funzionare con una regolarità strabiliante.
Dopo la brutta esperienza vissuta, al momento del ritorno, preferìi il viaggio in treno, anche perché in previsione di un trasferimento nel mio lavoro ero in attesa di una risposta. Nel corso della mia breve permanenza in terra natia, una volta sistemata la monte, non persi tempo ad andare a trovare una ragazza che avevo conosciuto anni prima in una località chiamata Troina e all’epoca abitante a Bronte, alle pendici dell’Etna, da quell’incontro sbocciarono successivamente gli inevitabili fiori d’arancio, infatti attualmente è la mia signora a cui gli sono infinitamente grato prima per avermi dato due campioni come Igor e Samuele ed in secondo luogo per la pazienza, (e credetemi ne ha avuta veramente tanta), per avere convissuto tutti questi anni con il sottoscritto e per aver dovuto accettare, anche se a malincuore, quelle che sono le mie idee sulla passione che ormai mi porto dietro, nel settore delle auto d’epoca, lasciando a voi l’immaginazione di quello che ciò comporta, producendo inevitabilmente dispendio di energie e non per ultimo quello oneroso nell’economia di una famiglia.
La mia breve permanenza in terra siciliana,, era ormai diventato un andare e vieni di quasi 300 km al giorno che mi portavano da Piazza Armerina a Bronte e viceversa, e non di rado giornate dove le “galoppate” che affrontavo con la monte e con la mia futura signora si prolungavano anche oltre, in virtù dei posti che andavamo a scovare in giro per la sicilia orientale, un romanticismo vissuto oserei definire quasi “Pascoliano”, solo che al posto della cavallina storna, ci accompagnava il settimo cavalleggeri. Da li a qualche settimana, dovetti rientrare, anche se
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a malincuore a Torino. Nel frattempo non mi ero affatto tolto il vizio di demolire le auto che mi passavano tra le mani, ma questa
volta facevo fuori la mia compagna di lavoro, infatti su un intervento in zona portanuova, provenendo dalla via Marengo, nell’immettermi in Corso Massimo d’Azeglio, con stupore, qualche cosa mi ostruiva la strada, ebbene, quel pomeriggio qualcuno aveva deciso che si doveva costruire uno spartitraffico, perfetto, preso in pieno, e dei 15 metri che erano stati appena costruiti inevitabilmente venivano immediatamente distrutti,
credo che mai nessuno sia riuscito così velocemente a costruire e a demolire nello stesso tempo. Ricordo ancora che nella squadra dove lavoravo, i simpaticissimi colleghi, realizzarono una caricatura, dove io continuavo ancora a correre, ma questa volta a piedi, con uno sterzo tra le mani, ed il mio capo equipaggio anche lui a correre a piedi ma tenendosi con entrambe le mani le parti basse o giù di li. Dopo qualche settimana, mi ritrovai di punto in bianco trasferito ai confini, e precisamente a Mosso Santa Maria in provincia di Vercelli, n.d.r. Biella, un vero toccasana per chi è amante della tranquillità, e come sempre ricordando quel detto che dice:”non tutti i mali vengono per nuocere”, approfittavo della situazione e cogliendo ciò che di positivo quest’avventura poteva offrirmi, tradotto in termini, significava; ”rally della lana”.
Ebbene, in quell’anno, parliamo del 1987, potevo finalmente vedere i bolidi che sfrecciavano per le contorte stradine di montagna, intonando e disperdendo nelle vallate sottostanti i ruggiti prodotti dai motori urlanti, forti dei loro 7000 giri e oltre, un vero toccasana per gli appassionati delle specialità,
Dopo ancora qualche mese di permanenza in terra Piemontese, ottenni finalmente il tanto atteso trasferimento nel meridione del “bel paese” e precisamente in Calabria,
Bellissima terra, contornata da splendidi posti, tanto nell’entroterra quanto nella lunghezza delle sue coste, ma proprio da questa fascia dell’Italia, mi porto ancora dietro, i ricordi più variegati della mia esistenza, molti belli, ma molti di più quelli sconcertanti, ricordi, che molto volentieri, avrei preferito dimenticare, ma come tutte le cose che ci portiamo dietro e che
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fanno parte del bagaglio di esperienza, si sa che quelli negativi sono non solo i più reali ma anche i più veri.
Per un breve periodo risiedo nella città di Cosenza dalla quale con la mia amata “carolina” giro in lungo e in largo per scoprire le bellezze dei nuovi luoghi, giusto per citarne qualcuna: località Camigliatello, per poi da qui scoprire gran parte della piccola Silla,
Fu proprio in questa città, dove ebbi altresì modo di conoscere un meccanico, se ben ricordo tale Scola, che a scalpito di quasi
quattro lustri trascorsi, l’assetto rifattomi all’epoca alla mia inseparabile compagna di viaggio, continua ancora ad oggi s sopravvivere, esempio longilineo di bontà, nella cura lavorativa a cui si dedicavano un tempo i “mastri artigiani”.
Ricordo ancora dell’incredibile rapporto umano che avevamo instaurato, tanto che a suggello dell’amicizia ritrovata, mi fece dono di un oggetto per la mia “carolina”, consisteva in un pomello del cambio, ricavato da un unico blocco cilindrico in alluminio e lavorato da lui personalmente, credo che in circolazione, anche se nella sua semplice realizzazione tipo racing, non ve ne sia uno uguale.
Da lì a breve, venivo trasferito in un piccolo paesino che si affaccia sulle rive del mar Tirreno avente per nome San Ferdinando in provincia di Reggio Calabria.
Ho ancora perfettamente a mente, il giorno in cui vi misi piede, “anche se credo sia più opportuno dire le gomme”, in questo piccolo centro, dove l’attività primaria per la gente del luogo era rappresentato dalla pesca e dall’agricoltura,
Era una caldo e assolato pomeriggio di dicembre e transitando per le piccole vie che mi si presentavano innanzi, notavo con stupore, lo sguardo dei residenti posarsi al mio indirizzo, non so se questo era dettato per l’ammirazione che incuteva in quell’istante “quell’automobile”, ma la mia propensione mi faceva più credere che tale atteggiamento era suggerito nel vedere un”estraneo” aggirarsi per quelle vie, e in effetti non mi sbagliavo.
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Introduzione
Nel periodo compreso tra gli anni ’60 e gli anni ’70, l’automobile sembra avere raggiunto la piena maturità; le innovazioni tecnologiche, ben si sposano al vestito che il designer crea sui modelli che i costruttori propongono.
Fiat, Lancia, Alfa Romeo, Lamborghini, Ferrari, Autobianchi, Maserati, rimanendo in tema di automobilismo Italiano, sono automobili ritagliate su misura per ceti e classi sociali di quegli anni; ma tutte quante contraddistinte da un forte carattere personale.
Ogni modello diverso dall’altro, alcune delle quali, nate e sviluppate nelle corse, e che in queste tengono alto il nome dell’Italia in tutte le piste del mondo.
La Lancia rimane ancora un prodotto destinato ad una utenza del ceto medio alto, infatti il blasone della quale è accreditata, per la stragrande maggioranza del popolo automobilistico di quegli anni, risulta un sogno irrealizzabile per via dei costi proibitivi, chi se la può permettere sono facoltosi professionisti ed esponenti dirigenziali privati o di stato dell’alta finanza dell’epoca.
A offuscarne l’immagine, fù la perdita della propria identità, nel momento in cui scivolò tra le mani di casa Fiat, resasi necessaria per una questiona di marketing.
Non stò li a dilungarmi sullo stile, la classe e l’innovazione tecnologica rappresentata dalla Lancia negli anni ’50 e ’60 considerati d’oro per il costruttore e già ben messi in risalto in altre bibliografie.
Ritornando agli anni, a cui facevo inizialmente riferimento, erano anni difficili, dettati dai motti rivoluzionari cosiddetti “sessantottini”, dalla crisi economica, da quella petrolifera a quella del terrorismo, in controtendenza la dirigenza Fiat, coraggiosamente, intraprese lo studio di un modello, che per certi versi oserei definire:”l’ultimo canto del cigno” la Lancia Beta Montecarlo.
L’innovazione che il nuovo modello portava in campo, era una ventata di sfida, dettata dalla necessità di ritrovare quel filo di continuità rappresentato nello stile e nella classe delle Lancia di un tempo, nonché l’anticipazione dei tempi, alla motorizzazione dei giovani rampolli di famiglie-bene.
La giovane mano dell’epoca, dell’intraprendente Paolo MARTIN, a molti sconosciuto, ma a ragione di cronaca personaggio a cui si deve la piena paternità della Lancia Beta Montecarlo, riusciva a modellare con forme armoniose ed eleganti, un coupè, che sembrava sprigionasse alla sola vista, doti di potenza superlativa abbinate ad una sportività da prima della classe, e la motorizzazione, una vera chicca per l’epoca, oggi viene criticata, non tanto quanto per le generose prestazioni, ma per il fatto che la Lancia Beta Montecarlo sembra essere avvolta da una eterna giovinezza, che ai nostri giorni, risulta essere ancora un modello così all’avanguardia ma con prestazioni, per i canoni attuali, deludenti in barba alla linea, che di fatto avrebbe dovuto promettere prestazioni più brillanti, da qui la necessità di tanti appassionati, a partire dallo scrivente, nel cimentarsi a rendere più performante la potenza, non per stare al passo con i tempi con gli attuali modelli, ma per dare il giusto tono a quello che rappresenta il modello in questione nelle sue forme
Per fare un esempio pratico: “è come privare un caccia dell’aeronautica militare del proprio armamento”.
La robotizzazione ha stravolto l’anima delle catene di montaggio, quanto prima, su ogni particolare, veniva posata la mano dell’uomo, l’automobile era un vanto e la gratificazione, espressione massima dell’operaio, che amorevolmente ne curava l’assemblaggio e lo lasciava solo quando era pronto per la commercializzazione del prodotto.
Le imperfezioni facevano parte del gioco, ed erano il segno tangibile che contraddistingueva i pregi del manufatto come espressione artigianale.
Un po’ meno i prodotti utilizzati, controvertibili in uno sfrenato risparmio a sfavore dei materiali utilizzati per far fronte ai lauti guadagni incamerati dalle grosse aziende automobilistiche e non.
Inevitabilmente, la suddetta politica non fece altro che decretare il surdimensionamento dei prestigiosi marchi che ebbero a portare a conoscenza del mondo intero, la qualità del Made In Italy.
Non nascondo una punta di patriottismo sulla questione in argomento, ma la globalizzazione, già iniziata verso la fine degli anni ’70, con il sistema di robotizzazione universale, ha finito per classificare le automobili in tre principali categorie: monovolume, station wagon e berline, a cui abbinare nomi o meglio numeri ancora più anonimi e continuando su questa scia, è come se nell’uomo, avanzi il timore di rendere esplicita la propria personalità nella conduzione dell’automobile, mascherandone di fatto le reali potenzialità all’utenza a cui essa è destinata.
Ai giorni nostri, la sobrietà è di rigore, la soddisfazione delle forme, intesa come arte, è diventata una prerogativa per pochi eletti, ed in tutto ciò, la persona comune, a mio giudizio ci ha rimesso e non poco, a favore del comune denominatore così detto:”comfort”.
Ma ritorniamo alla Lancia Beta Montecarlo, ultimo concetto di dream car scomparsa, che forse sarebbe potuta essere alla portata di molti.
Su questo modello, tutto è personale, dai cerchi ruota da 13 pollici, misura che per la prima volta adotta una Lancia, all’innovativo disegno a clessidra unico nel suo genere; esclusivi sono: la fanaleria anteriore, con disegno dei fari trapezoidali (nella serie destinata al mercato europeo), alla scocca del tipo portante, quindi raffrontando il modello con gli altri della famiglia beta, le uniche cose che condivideva, consistevano nella motorizzazione, alcune parti della sospensione ed il sistema frenante, quest’ultimo il vero tallone d’Achille della Lancia Beta Montecarlo; esclusivi, erano altresì, i paraurti in materiale plastico di apposito disegno, le scocche delle sedute interne, anch’esse di plastica, e nella AS/T il sistema di ripiego della capotte (brevetto pininfarina). Ricordiamo inoltre, che tutte le Lancia della famiglia Beta, venivano prodotte presso gli stabilimenti di Chivasso, mentre la loro sorella “speciale” la Lancia Beta Montecarlo, veniva interamente costruita ed assemblata negli stabilimenti della Pininfarina siti in Orbassano; solo questo, già bastava ad identificare la bontà del progetto, dove la realizzazione dello stesso, veniva prodotto in una azienda
prima nel settore in tutta Europa, per lo sviluppo della ricerca e per quanto riguardava quello del designer.
Nella bibliografia curata da Bruno VETTORE, si racconta delle strategie operate dal gruppo Fiat, per la collocazione sul mercato del progetto X-1/20 e quindi per la sua successiva commercializzazione con il marchio Lancia, evidentemente, nel suddetto contesto, nell’azienda già si maturava da tempo, l’idea di sostituire nel mondo delle corse la Lancia Stratos o quantomeno svilupparne le potenzialità con un prodotto più affine ai dettami FIAT, è in effetti un assaggio di quello che avrebbe regalato in seguito la Montecarlo Turbo, venne anticipato con il prototipo abarth SE 030, in occasione del Giro d’Italia, con un secondo posto maturato ed inatteso al di là delle più rosee aspettative dell’azienda.
Di conseguenza la presentazione della Lancia Beta Montecarlo, avveniva tra i migliori auspici, anche se a dire il vero del prototipo SE 030, aveva ben poco da spartire, almeno per quanto riguardava la cilindrata e parte della meccanica nonché lo stravolgimento della carrozzeria.
A distanza da quel lontano 1975 anno di nascita della Lancia Beta Montecarlo, a oggi, essa è entrata di diritto a far parte di quella schiera di automobili definite con il pseudonimo di “storiche”, e che rimanendo in casa Lancia, solo altre due a mio avviso hanno maturato “nonostante la giovane età” il diritto di fregiarsene: la Lancia Rally 037 e la Lancia Delta S4. Da quest’ultima in poi, credo proprio che sia terminata un’epopea: il connubio tra l’uomo, quale creatore dell’automobile e l’automobilismo stesso, immagine riflessa della creatività dell’uomo.
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Nel 1975, in un caldo pomeriggio di settembre dell’entroterra siciliana, mi appoggiai alla ringhiera dal balcone di casa, posto al settimo piano di un caseggiato condominiale, e come ero solito fare nei momenti di ozio, fantasticavo sul mio futuro da indipendente, sul lavoro, cosa mi avrebbe riservato il futuro, quale automobile sarei riuscito ad avere da grande, strano a dirsi, ma in quel periodo le automobili che ammiravo di più, erano le Alfa Romeo, e mentre pensavo a tutto questo, il mio sguardo era
rivolto alla piazza sottostante, dove lo scarso traffico di quel tempo mi permetteva di distinguere il transito di una gazzella dei Carabinieri, il passaggio di qualche vespa, una corriera e tra le altre cose distinguevo parcheggiate le solite automobili.
Tra quelle auto, il mio sguardo si posò su una vettura che non riuscivo a catalogare tra quelle che ero in grado di conoscere.
Dalla distanza sembrava assomigliare ad una ferrari o giù di li, era di colore azzurro chiaro con un tettuccio simile alla 500 e le pinne che raccordavano il tettuccio al posteriore, la prima impressione fu quella che si trattasse proprio di una ferrari, dalle mie parti non se ne era mai vista una, per cui incuriosito usci di casa e mi precipitai in strada dove era parcheggiata, per poterla vedere più da vicino.
Mi avvicinai sempre più, quando le fui accanto, tanto da poterla accarezzare, rimasi sorpreso e nel contempo esterrefatto nel momento in cui constatai che si trattava di una lancia.
Fino a quel momento, le uniche che avevo visto, erano delle fulvia coupe, fulvia c, qualche flavia ma non avevo mai visto nulla di simile in circolazione.
Me la mangiai letteralmente con gli occhi, volendo utilizzare un linguaggio dei giorni nostri, la scannarizzai in ogni dettaglio: gli interni con due posti secchi, quelle pinne posteriori che la facevano tanto ferrari, quel muso così innovativo, fino a quel tempo. si era abituati ai paraurti in acciaio con rostri in gomma, così bassa da poterle stare una spanna più in alto, per quanto in quel tempo ignorante nel settore, tutto mi portava a credere che si trattasse di un modello nato per le corse, e forse sotto sotto non mi sbagliavo.
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In quell’ istante felice della mia giovinezza, d’un tratto mi si avvicinò un signore dall’aspetto distinto di mia conoscenza, garbatamente lo salutai e lui ricambiò, senza dire nient’altro inserii la chiave nella serratura, aprì lo sportello e si sedette al posto guida, feci appena in tempo a vedere gli interni che mi sembrarono ancora più belli, richiuse la portiera, mise in moto e dopo una breve retromarcia innestò la prima e partì allontanandosi, in quel momento magico ma triste nello stesso
tempo, quanta amarezza provai, mi sentivo come un bambino al quale avevano tolto della cioccolata dalle mani, e continuavo a fantasticare come sarebbe stato bello salire da passeggero su quell’automobile per provare l’emozione di un giretto.
In famiglia l’unica auto che si possedeva era una fiat 500 f che mio padre acquistò nel 1966 e che utilizzava per lavoro percorrendo mediamente 60-70 km al giorno per recarsi a Caltanissetta dove era impiegato come macchinista nelle Ferrovie.
Ritornato a casa, parlai di quell’auto alla mia famiglia con tanto entusiasmo, tanto che mio padre mi riprese dicendomi che noi non avremmo mai potuto permettercela e che in ogni caso la sua 500 la considerava la migliore auto del mondo e che non l’avrebbe cambiata mai per nessun motivo.
Sicuramente era un periodo in cui correvano tempi duri, e dove tutto si faceva con sacrificio: i prestiti in banca per la casa da pagare, il mantenimento di noi figli a scuola, la spesa al negozio di generi alimentari, dove si pagava a fine mese (era un’usanza di quel tempo), e non per ultimo i viaggi che mio padre affrontava giornalmente con la sua “automobilina”.
Certo era una grande faticaccia economica mantenere tutti questi impegni con un solo stipendio, e quindi per certi versi la parola d’ordine in casa era “solo ciò che è necessario”, ma dopo tutto, quanto asseriva che la 500 è la migliore auto del mondo, non sbagliava affatto, tanto è vero che a distanza di 43 anni, svolge ancora onorato servizio anche se meno gravoso rispetto all’utilizzo a cui veniva sottoposta prima.
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Passato quel pomeriggio strabiliante, il giorno successivo, nonché tutti gli altri a venire, non perdevo l’occasione per incontrare quella speciale automobile, che francamente vedevo di rado e sempre di sfuggita.
Quelli erano gli anni, dove la passione per le corse, le si seguivano per la maggiore in televisione, ma mi reputavo uno fortunato per avere un autodromo,”si fa per dire a quattro passi” da dove abitavo, e precisamente a Pergusa a circa 25 chilometri; certo in automobile a non più di 30 minuti di percorrenza, ma quanto il percorso lo si doveva affrontare in bicicletta “una vecchia Graziella” le cose cambiavano radicalmente. Un appuntamento al quale immancabilmente mi presentavo ogni anno, era il: ”Gran Premio del Mediterraneo”, e nell’occasione, in compagnia del mio carissimo amico Paolo, armati di tutto punto, il venerdì mattina si partiva in bicicletta con zaino in spalla e tenda al seguito, per trascorrere tre memorabili giorni, dove dal vivo si poteva ammirare non solo la gara clou della formula 3000 internazionale, ma tutte le altre di contorno, senza contare che al calare della sera, da un foro già esistente nella rete che delimitava il circuito, si percorrevano circa 2 chilometri di pista a piedi in senso contrario aiutati da una torcia del tipo di quelle che si usano quanto si va a pesca, più che torcia l’avrei definito un vero e proprio faro allo iodio, per andare a sbirciare nei box, e poter vedere da vicino i bolidi che avevano sfrecciato nell’arco della giornata. Una cosa del genere ai giorni nostri sarebbe impensabile se non addirittura pura follia, ma a quel tempo era possibile, quando i meccanici delle scuderie ci vedevano arrivare, nei nostri confronti non mostravano nessuna sofferenza, anzi nell’avvicinarci, con molta simpatia facevano segno di aiutarli a spingere qualche auto da corsa e dopo questa accoglienza quasi sempre ci donavano adesivi di sponsor, qualche volta per premiare questa nostra “temerarietà”, ci scappava qualche pezzo forte, come quella che mi capitò: “una tuta da meccanico di colore rosso con tanto di sponsor”, sembrava quasi come aver fatto tredici.
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Con rimpianto, ricordo quei momenti magici, dove tutto sembrava avere un odore diverso, non per ultimo, quello rilasciato dalle auto da corsa che aleggiava lungo l’anello del circuito, dell’inconfondibile bruciato di olio di ricino, profumo prezioso per gli appassionati di un tempo che non respireranno mai più ma che conserveranno nella memoria più intima.
Fù proprio in questo circuito, nella lontana estate del 1978, che avvistai per la prima volta, quella che avevo definito al mio primo incontro un ‘auto nata per le corse”, si proprio così, ebbi il privilegio di conoscere la lancia beta montecarlo turbo, avvolta in un colore arancio, intermezzato da fasce zebrate di colore nero, nella sua imponente maestosità, sembrava un’auto proveniente dal futuro, alla sola vista, incuteva timore, figuriamoci agli avversari. Quanto la vidi girare in pista, appariva ancora più sfuggente di quella vista qualche anno prima, evidentemente questa sembrava essere una costante dalla quale mi risultava difficile sottrarmi, eppure ad ogni passaggio affrontato dal mio punto di osservazione, non riuscivo a distoglierne lo sguardo, rimanendo estasiato da tanta bellezza, eleganza e potenza.
Giro dopo giro, arrivò il momento dell’ultimo, ma in quella giornata agonistica, non ero minimamente interessato al risultato della gara, ma solo a posare gli occhi sul quel mostro di potenza, so solo che passati quei giorni, per poterla rivedere, anche se sotto altre vesti, sono dovute trascorrere ben 28 primavere, in occasione dell’incontro avvenuto nel maggio 2006 nel day a Fiorano .
Nel 1980, mi inserisco nel mondo del lavoro, per l’appunto mi arruolo presso l’Arma dei Carabinieri, la mia prima destinazione è un piccolo centro dell’interland torinese un paesino industriale avente per nome Pianezza. Finalmente posso aspirare alla tanto agognata libertà personale, economica, mi accingo ad acquistare la mia prima automobile, si tratta di una fiat 128 3p di cilindrata 1100 di un colore azzurro chiaro, fino a quel momento il mio interesse più forte, era rappresentato dal lavoro, ancora fatto per passione e subito a ruota l’indipendenza nel muovermi
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liberamente. Ecco che a distanza di qualche mese dall’acquisto, immancabilmente faccio fuori il motore, grazie a questo spiacevole episodio, avrò modo di conoscere quello che per me sarà un grande amico, ma soprattutto un vero mago dei motori, per prendere in prestito le parole di un “grande”, è uno di quelli “che da del tu ai motori”, infatti il meccanico a cui mi affido si chiama Giamberto BOLLEA e guarda caso abita proprio dove ho il mio posto di lavoro a Pianezza.
Al primo incontro, ho un sussulto, infatti quella che a prima vista dovrebbe essere un’officina, di fatto assomiglia tanto ad una
stalla, infatti non a caso, dando un’occhiata in giro, vedo da una parte trattori, da un’altra galli ruspanti e da un’altra ancora mucche da fare invidia a quelle ticinesi, ma non è finita, in un angolo di una capanno, intravedo una fiat 124 abarth nella tipica livrea bicolore bianco nero e in un altro attiguo, una pantera de Tommaso anch’essa bianca e nera, quello che a prima vista poteva avermi impressionato in modo negativo, in controtendenza alla vista di quei due bolidi il buon senso mi suggerisce di aver trovato una persona che sa il fatto suo.
Grazie al mio nuovo amico Berto, riesco sempre di più ad apprezzare la tecnica applicata sui motori e di giorno in giorno il bagaglio di esperienza che accumulo e’ di tale portata da fare invidia a chi questo sapere lo deve per professione, ma come ben spesso capita, alla sete di conoscenza di un appassionato no ce mai fine, ed è proprio in questo che dove gli altri si arrendono entra in gioco la tenacia chi di questa passione ne ha fatto uno stile di vita.
Ritornando alla fiat 128 3p, sostituii il motore e roba da non credere, con tanto di scarico libero che usciva lateralmente da sotto la fiancata lato guida e con una cavalleria di oltre 80 puledri; uno spettacolo, ma anche se all’epoca tutto questo si poteva fare, nell’aria si sentiva che qualcosa stava cambiando anche se in peggio a scalpito della sopravivenza dell’estro e dell’inventiva di chi sapeva giocare con quegli strumenti. Di li a poco questa volta la 128 3p la feci completamente fuori e per
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fortuna senza conseguenze fisiche per il sottoscritto; subito alla ricerca di una nuova automobile si fa per dire e questa volta la mia scelta, cadde su un vero mostro, era una lancia beta coupè 2000 con il classico colore chiaro metallizzato, da un coupè ad un altro, ma con una vocazione più sportiva, una due più due e per giunta con un biglietto da visita che nella cilindrata rappresentava il top delle coupè italiane. Vista la cilindrata e le prestazioni, e non ritenendo opportuno intervenire su una eventuale elaborazione, il mio carissimo amico Berto riusciva ugualmente a coinvolgermi, convincendomi a modificare il carburatore,
un’altra musica credetemi, sembrava che di colpo la ripresa fosse più che raddoppiata.
Ma anche questa, ahimè copiò integralmente la fine della 128 3p, e ancora una volte senza conseguenze fisiche per il sottoscritto.
Quel motore bialbero mi aveva lasciato il segno, e così per la terza volta, rimanendo in casa fiat, volli optare per una berlina, questa volta puntai su una 131 racing; all’interno un salotto di lusso, ma all’esterno sprizzava sportività da ogni parte.
Della lancia beta montecarlo non avevo più nessun ricordo, perché vederle in giro, era più difficile di quanto uno pensasse, e oltre tutto non facevo nulla per poterla cercare, evidentemente per me, in quel momento della mia vita, era più interessante scoprire l’arte del consumismo, piuttosto che andare a scavare nella recrudescenza del mio più profondo io.
Ma ecco che un bel giorno percorrendo Corso G. Cesare a circa metà della sua lunghezza, in una concessionaria di automobili ne intravidi una; e quello che più mi colpì, fu il colore di un vivo arancio. Mi avvicinai per guardarla meglio, ma era ridotta piuttosto male, nonostante tutto, sentivo che dentro di me, alla vista di quell’automobile, si era riaccesa una fiammella che sembrava ormai spenta, ma dal momento che ero riuscito a trovarne una, mi convinsi che era possibile ricercarne delle altre e di conseguenza mi comportai. Dopo vari estenuanti tentativi, ne vidi una in una piccola auto concessionaria di corso Valdocco, ma anche questa sembrava essere stata sfruttata all’osso tant’è mi convinsi che sarebbe stato impossibile trovarne una di seconda
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mano in ottime condizioni. Ancora nel 1985, la beta montecarlo, figurava nei listini del nuovo di casa Lancia, ma per le mie finanze aveva un costo non indifferente, per cui continuavo nella ricerca, speranzoso di trovare un esemplare in ottime condizioni.
Ad accelerare questa ricerca e a convincermi nell’acquisto, fu la ulteriore e per l’ennesima volta, la distruzione del 131 racing. In un pomeriggio primaverile del 1986, passeggiando nei pressi della stazione di Porta Nuova, vidi una concessionaria dal nome stilauto, all’interno vidi una stupenda lancia beta montecarlo di colore bianco con tettuccio apribile, apparentemente in condizioni
impeccabili, entrato, contattai il concessionario il quale dopo avermi illustrato tutte le peculiarità del mezzo, con sorpresa mi comunicava che vi era un solo piccolo inconveniente ossia il motore fuso. Rimasi di stucco, ma questi subito puntualizzò che non sarebbe stato un problema rimetterlo a posto. Ormai era fatta, ma prima di cimentarmi nell’acquisto, contattai il mio amico Berto, questi mi consigliò di comprarla così come si trovava, anche perché avrei potuto trattare abbondantemente sul prezzo d’acquisto, che poi lui avrebbe provveduto a sistemarla, ma prima di agire in tal modo, gli domandai se era disposto a vendermi il suo 124 abarth, mi rispose che quella non l’avrebbe mai venduta, ma da lì a breve, le cose non andarono come in effetti mi aveva risposto.
Detto fatto, ricontatto la concessionaria Stilauto, ci accordammo sul prezzo di acquisto, e caricata la lancia beta montecarlo su un carro attrezzi, messomi a disposizione dallo stesso venditore, la feci trasferire dal mio amico Berto, ancora non credevo ai miei occhi, finalmente avevo coronato il mio sogno da adolescente, lungo il tragitto immaginavo già come mi ci sarei immedesimato all’interno, una sportiva senza compromessi con due posti secchi, un motore posteriore da 2000 cc ed una cavalleria di tutto rispetto, non nascondo l’idea di quanti cuori avrei infranto ogni qualvolta sarebbe salita a bordo una ragazza, in effetti il mio sogno al di là di ogni aspettativa, era appena iniziato.
Dopo circa 10-15 giorni, la monte era pronta e con palpitazione, mi lasciai scivolare all’interno dell’abitacolo, in quel momento
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mi sentivo il padrone della strada, la prima cosa che mi colpì dell’interno, fù il parabrezza spiovente e la seduta che non mi consentiva di stabilire gli ingombri della carreggiata e tanto meno dove finisse l’anteriore, tanto era lungo, dopo aver familiarizzato con i vari comandi ben dislocati e tra l’altro di facile lettura, girai la chiave di accensione e sentii un rombo dietro le spalle come se tra abitacolo e vano motore, non ci fosse stata nessuna paratia, istintivamente girai la testa e non essendo abituato ad uno spazio
così ridotto, mi ritrovai immediatamente a sbattere quasi con il naso contro il lunotto .
E si, dovevo proprio abituarmi a quella convivenza, dopo tutto non si trattava di un’auto normale ma una di quelle il qui seguito, aveva dato i natali alla montecarlo turbo e alla rally. In quel felicissimo giorno della mia vita, mi sentivo come un pilota di formula 1. Le emozioni che provai non sfuggirono al mio amico Berto, che arrivò al punto di dirmi che era più bella della sua 124 abarth, non so se l’abbia asserito perchè la cosa mi facesse piacere o perché ci credeva realmente ma mi fece alcune raccomandazioni, nel fare attenzione visto che si trattava di una trazione posteriore e per finire quella di non schiantarla, sarebbe stato un vero peccato. Gli unici interventi che all’epoca operò sul motore, furono l’apertura in contemporanea dei due corpi del carburatore, e l’accensione elettronica, ebbene per l’epoca, andava che era una scheggia. In quel periodo il mio lavoro, lo svolgevo al nucleo radiomobile dei carabinieri di Torino in Via Veglia, e giornalmente guidavo un’alfetta 1800, tanto per capirci una delle prime risalenti al 1973, una quattro fari, e volendo fare un raffronto con la monte posso asserire che quet’ultima non solo era più veloce in termini di prestazione massima, ma anche in fatto di ripresa, per cui da buon lancista posso diagnosticare un risultato di 1-0, certo qualcuno potrebbe anche dirmi che le cilindrate diverse, potevano favorire la monte, ma in fatto di peso potenza e in virtù dell’alimentazione con i due doppi corpi a favore dell’alfa, i conti dopo tutto si pareggiavano. In ogni caso, su entrambe le auto, quelli che per molti conducenti potevano
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definirsi delle anomalie, tipo il cambio dell’alfa o i freni sulla monte, per l’appassionato erano invece delle peculiarità dove il “pilota” poteva dimostrare la sua abilità, nel mio caso, asserivo che dopo tutto i freni servivano solo per fermarsi per cui l’importanza degli stessi era superfluo, ma in realtà non era proprio così, dopo tutto le sconfitte sono sempre difficili da accettare.
In quel periodo la monte la usavo come una normale utilitaria, per gli spostamenti in città, per i fine settimana, per andare in montagna, sulla neve, insomma con ogni condizione di tempo, e puntualmente il suo ricovero notturno, consisteva nell’avere per tettoia, le stelle del firmamento così come io stesso la definisco, gli appioppai pure un nome:”carolina” perchè mi ricorda tanto una vacca, che amorevolmente curava il padre del mio amico Berto e prendendolo come esempio anch’io mi ero riproposto di fare lo stesso con la mia monte; questa volta niente più incidenti, distrazioni o quanto altro potevano separarmi da lei, anzi a dirla in breve, proprio con lei, ho avuto modo di affinarmi nella tecnica di guida, e in uno stile che contraddistingue ogni buon lancista sulle strade di tutti i giorni.
Limone Piemonte, Giaveno (località aquila), Sestriere, Gressonej, Monte Bianco, Saint Vincent, Val Varaita, Stresa, Peceto, Cambiano, Volpiano, Biella, Mosso Santa Maria, Santa Margherita Ligure, erano solo alcuni dei posti dove solitamente passavo i fine settimana, quanto ero libero da impegni di lavoro e puntualmente la mia monte partiva, arrivava e ritornava al punto di partenza, senza mai darmi problemi di sorta, mai una volta che mi si scaricasse la batteria, mai un inconveniente meccanico, di quanto la utilizzavo, a ricordo, non ho mai tenuto a mente i chilometri percorsi, l’importante era e resta la manutenzione con ottimi prodotti, mi ricordo che all’epoca per il cambio olio, utilizzavo il vs corse della Fiat.
A Dicembre del 1986, decido di affrontare il primo vero e lungo viaggio con la mia compagna fedele, in occasione delle festività
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di quel Natale, quindi partenza da Torino con destinazione Piazza Armerina in provincia di Enna. Nell’occasione mi programmo il
percorso, e decido per la Torino-Genova-Livorno e Roma Via Aurelia, quindi la Salerno Reggio Calabria, traghetto Villa S.G.- Messina e successivamente proseguire sulla Statale litoranea fino a Catania e sulla statale per Piazza Armerina, evitando di proposito l’autostrada, per ammirare e godermi il paesaggio della tappa siciliana. Da come si può vedere, un vero e proprio raid di circa 1700 km, nulla da invidiare ad una mille miglia o qualsivoglia riedizione storica affrontata ai giorni nostri e per giunta chilometri percorsi senza soluzione di continuità, ad eccezione della soste per il pieno di carburante e qualche caffè. Ebbene, la sera del 12 dicembre 1986, alle ore 21,00 circa, incomincio il mio viaggio con partenza da Cambiano, dove posso contare nell’appoggio logistico di alcuni miei parenti, da lì all’imbocco dell’autostrada sono due passi, da conti fatti a tavolino, l’arrivo a Piazza Armerina, è previsto intorno alle ore 12,00 del giorno successivo; le condizioni climatiche sono favorevoli, con un bel cielo stellato ma con temperature in prossimità allo zero.
Dopo una buia notte di viaggiare per oltre 1000 km, non sopraggiungono inconvenienti di sorta, tutto fila liscio, la tabella di marcia teorica, sembra rispettare alla lettera quella pratica; dopo avere oltrepassato il raccordo annullare a Roma, il tempo sembra cambiare, infatti cominciano a scendere giù le prime goccioline di pioggia, alle prime luci dell’alba, mi trovo a ridosso della terra calabrese, da qui sembra scatenarsi un vero e proprio diluvio, tuoni, lampi, fulmini e per finire una fitta grandinata, questo mal tempo sembra accompagnarmi con rassegnazione per il resto della durata del viaggio, subito dopo Falerna nei pressi di Lamezia Terme, la monte sembra tossire, la cosa mi allarma, ma fiducioso mi convinco possa trattarsi della calotta dello spinterogeno presumibilmente inumidita o bagnata a causa del temporale che perversa. Intorno alle ore 09,30, Tra gli svincoli di Gioia Tauro e Palmi mentre procedo ad una velocità di circa 90 km/h sento un forte rumore provenire dal gruppo propulsore, la
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monte va ugualmente e se mi mantengo ad una velocità di 100 Km/h il rumore scompare, sopra o sotto tale limite il rumore si
ripresenta, un bell’enigma. Decido di uscire a Palmi per fare controllare la Monte presso un’autofficina, che trovo subito dopo lo svincolo autostradale; dopo circa 60 minuti di attesa, mi si presenta il capo officina, un giovane di circa trent’anni che sentito il mio parere, la prima cosa che fa è quella di smontare la calotta pulirla e asciugarla, rimette in moto, e come per incanto la monte sembra girare bene solo un leggero ticchettio
proveniente dal basamento del motore, ma nessun segnale di fumo o chissà cos’altro che mi possa impensierire per il proseguo del viaggio. Mi rimetto in marcia, ma dopo pochi chilometri l’anomalia si ripresenta, in li per li penso alle possibili dilatazioni degli organi meccanici causate a seguito del lungo viaggio, a qualche cuscinetto di banco saltato non so come, sta di fatto che se mi mantengo a velocità stabilita di 100 km/h non si sente un bel niente. Fra tribolazioni e ansie, finalmente arrivo a Piazza Armerina, anche se ho dovuto modificare per cause di forza maggiore l’itinerario previsto alla partenza, ma dopo tutto, oltre al problema presentatomi, con quel mal tempo non so fino a che punto mi sarei potuto godere il paesaggio; ah dimenticavo l’arrivo previsto, a questo punto slittava, protraendosi di oltre quattro ore con arrivo alle ore 16,20 circa. Il giorno successivo portavo la monte da un mio amico meccanico, Franco, esperiente nel suo campo, senza farmi aprire bocca, prese uno strumentino che aveva tutta l’aria di un registratore con relativo microfono e altoparlante, con il motore al minimo, appoggiò il microfono al basamento del motore e di tanto in tanto lo spostava come per seguire e sentire i movimenti delle bielle, dopo un pò mi guardò sorrise e aggiunse, nulla di grave, l’albero motore è letteralmente rotto in due tra la terza e la quarta biella. Incredulo, per la diagnosi sentenziata continuavo a domandargli come era possibile che si fosse verificato un simile guaio, ma anche lui non sapeva spiegarselo, sta di fatto che nel momento in cui lo smontò, l’albero si presentava rotto in due, a questo punto l’unica possibilità ad una risposta, era quella di un albero difettoso.
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Contattai il mio amico Berto di Torino, che sentita la magagna capitatami, anche lui si stupì e mi promise che quanto prima ne
avrebbe spedito uno particolare, in effetti dopo circa una settimana mi arrivò l’albero motore cosi come promesso, ma questa volta me ne rifilò uno alleggerito, equilibrato e con tanto di bronzine, a dir poco rispetto a quello originale, pesava, se ben ricordo , almeno il 20% in meno; appena fu montato, la monte immediatamente riparti, ed è da allora fino ad oggi che quell’albero continua a funzionare con una regolarità strabiliante.
Dopo la brutta esperienza vissuta, al momento del ritorno, preferìi il viaggio in treno, anche perché in previsione di un trasferimento nel mio lavoro ero in attesa di una risposta. Nel corso della mia breve permanenza in terra natia, una volta sistemata la monte, non persi tempo ad andare a trovare una ragazza che avevo conosciuto anni prima in una località chiamata Troina e all’epoca abitante a Bronte, alle pendici dell’Etna, da quell’incontro sbocciarono successivamente gli inevitabili fiori d’arancio, infatti attualmente è la mia signora a cui gli sono infinitamente grato prima per avermi dato due campioni come Igor e Samuele ed in secondo luogo per la pazienza, (e credetemi ne ha avuta veramente tanta), per avere convissuto tutti questi anni con il sottoscritto e per aver dovuto accettare, anche se a malincuore, quelle che sono le mie idee sulla passione che ormai mi porto dietro, nel settore delle auto d’epoca, lasciando a voi l’immaginazione di quello che ciò comporta, producendo inevitabilmente dispendio di energie e non per ultimo quello oneroso nell’economia di una famiglia.
La mia breve permanenza in terra siciliana,, era ormai diventato un andare e vieni di quasi 300 km al giorno che mi portavano da Piazza Armerina a Bronte e viceversa, e non di rado giornate dove le “galoppate” che affrontavo con la monte e con la mia futura signora si prolungavano anche oltre, in virtù dei posti che andavamo a scovare in giro per la sicilia orientale, un romanticismo vissuto oserei definire quasi “Pascoliano”, solo che al posto della cavallina storna, ci accompagnava il settimo cavalleggeri. Da li a qualche settimana, dovetti rientrare, anche se
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a malincuore a Torino. Nel frattempo non mi ero affatto tolto il vizio di demolire le auto che mi passavano tra le mani, ma questa
volta facevo fuori la mia compagna di lavoro, infatti su un intervento in zona portanuova, provenendo dalla via Marengo, nell’immettermi in Corso Massimo d’Azeglio, con stupore, qualche cosa mi ostruiva la strada, ebbene, quel pomeriggio qualcuno aveva deciso che si doveva costruire uno spartitraffico, perfetto, preso in pieno, e dei 15 metri che erano stati appena costruiti inevitabilmente venivano immediatamente distrutti,
credo che mai nessuno sia riuscito così velocemente a costruire e a demolire nello stesso tempo. Ricordo ancora che nella squadra dove lavoravo, i simpaticissimi colleghi, realizzarono una caricatura, dove io continuavo ancora a correre, ma questa volta a piedi, con uno sterzo tra le mani, ed il mio capo equipaggio anche lui a correre a piedi ma tenendosi con entrambe le mani le parti basse o giù di li. Dopo qualche settimana, mi ritrovai di punto in bianco trasferito ai confini, e precisamente a Mosso Santa Maria in provincia di Vercelli, n.d.r. Biella, un vero toccasana per chi è amante della tranquillità, e come sempre ricordando quel detto che dice:”non tutti i mali vengono per nuocere”, approfittavo della situazione e cogliendo ciò che di positivo quest’avventura poteva offrirmi, tradotto in termini, significava; ”rally della lana”.
Ebbene, in quell’anno, parliamo del 1987, potevo finalmente vedere i bolidi che sfrecciavano per le contorte stradine di montagna, intonando e disperdendo nelle vallate sottostanti i ruggiti prodotti dai motori urlanti, forti dei loro 7000 giri e oltre, un vero toccasana per gli appassionati delle specialità,
Dopo ancora qualche mese di permanenza in terra Piemontese, ottenni finalmente il tanto atteso trasferimento nel meridione del “bel paese” e precisamente in Calabria,
Bellissima terra, contornata da splendidi posti, tanto nell’entroterra quanto nella lunghezza delle sue coste, ma proprio da questa fascia dell’Italia, mi porto ancora dietro, i ricordi più variegati della mia esistenza, molti belli, ma molti di più quelli sconcertanti, ricordi, che molto volentieri, avrei preferito dimenticare, ma come tutte le cose che ci portiamo dietro e che
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fanno parte del bagaglio di esperienza, si sa che quelli negativi sono non solo i più reali ma anche i più veri.
Per un breve periodo risiedo nella città di Cosenza dalla quale con la mia amata “carolina” giro in lungo e in largo per scoprire le bellezze dei nuovi luoghi, giusto per citarne qualcuna: località Camigliatello, per poi da qui scoprire gran parte della piccola Silla,
Fu proprio in questa città, dove ebbi altresì modo di conoscere un meccanico, se ben ricordo tale Scola, che a scalpito di quasi
quattro lustri trascorsi, l’assetto rifattomi all’epoca alla mia inseparabile compagna di viaggio, continua ancora ad oggi s sopravvivere, esempio longilineo di bontà, nella cura lavorativa a cui si dedicavano un tempo i “mastri artigiani”.
Ricordo ancora dell’incredibile rapporto umano che avevamo instaurato, tanto che a suggello dell’amicizia ritrovata, mi fece dono di un oggetto per la mia “carolina”, consisteva in un pomello del cambio, ricavato da un unico blocco cilindrico in alluminio e lavorato da lui personalmente, credo che in circolazione, anche se nella sua semplice realizzazione tipo racing, non ve ne sia uno uguale.
Da lì a breve, venivo trasferito in un piccolo paesino che si affaccia sulle rive del mar Tirreno avente per nome San Ferdinando in provincia di Reggio Calabria.
Ho ancora perfettamente a mente, il giorno in cui vi misi piede, “anche se credo sia più opportuno dire le gomme”, in questo piccolo centro, dove l’attività primaria per la gente del luogo era rappresentato dalla pesca e dall’agricoltura,
Era una caldo e assolato pomeriggio di dicembre e transitando per le piccole vie che mi si presentavano innanzi, notavo con stupore, lo sguardo dei residenti posarsi al mio indirizzo, non so se questo era dettato per l’ammirazione che incuteva in quell’istante “quell’automobile”, ma la mia propensione mi faceva più credere che tale atteggiamento era suggerito nel vedere un”estraneo” aggirarsi per quelle vie, e in effetti non mi sbagliavo.
Re: Bibliografia
Ivan, l'ho letto tutto d'un fiato ed è veramente bello. Penso che ognuno di noi abbia una storia simile da raccontare, ed io mi ci sono immedesimato. A questo punto aspetterei il finale, dopo San Ferdinando che succede? Non sarà mica un'iniziativa editoriale per farci venire la voglia di comprare il libro?
Complimenti di nuovo.
Mario
Grosseto
Complimenti di nuovo.
Mario
Grosseto
Re: Bibliografia
Grszie per l'incoraggiamento, ma da li al finale c'è ancora molta strada e anedotti da raccontare, pensa che il viaggio di nozze è uno dei tanti episodi da scoprire, la mia non vuole essee una iniziativa editoriale, al fine di lucro, ma qualcosa da lasciare ai posteri su come eravamo, un fatto di usi e costumi, dove l'auto non rappresentava solo un semplice mezzo di trasporto, ma un obiettivo come fine di un proggetto da realizzare e dove i sogni "realizzabil"i erano ancora alla portata di tutti. Ciao e a ancora grazie.
Re: Bibliografia
Era evidente che scherzavo sull'iniziativa editoriale. Quando leggo gli articoli sulle auto nelle riviste tipo ruoteclassiche la parte che mi interessa di più sono i legami che ognuno di noi ha con la propria auto. E quando leggo qualcosa sulla l.b.m. mi emoziono anche di più. Provo solo un pò di invidia per quei cavalli in più che la mia non riesce ad esprimere. Ma queste sono altre storie...............
Re: Bibliografia
Sono sempre, e non solo io, a dare qualche dritta per raggiungere lo scopo, ma senza perdere in affidabilità.
Re: Bibliografia
Detto e fatto!!!!!!! Complimenti Ivan. Nel momento in cui leggo le tue righe,mi riaffiorano bei momenti passati nei miei 15-30 anni.
Se il tuo scopo è questo continua. Con affetto Max
Se il tuo scopo è questo continua. Con affetto Max
Re: Bibliografia
Caro Ivan, complimenti vivissimi : se la classe del romanziere non è eccelsa, eccezionale è,invece,lo spirito ed il trasporto del vero appassionato e intenditore lancista!!!!
Saluti letterari
StefanoF
Saluti letterari
StefanoF
Chi non spera l'insperabile, non lo scoprirà. ( Eraclito )
Re: Bibliografia
Grazie, naturalmente in temini di ortografia, trattandosi di un "lungo racconto", tante cose dovranno essere riviste, dopo tutto credo sia la parte meno impegnativa per il sottoscritto, im quanto a curarla sarà un vero professionista del settore. Grazie ancora
Re: Bibliografia
Grazie per la fiducia, se tutto andrà per il verso giusto, da corredo al racconto ca saranno non solo delle belle immagini ma anche un dvd con tutto il materiale raccolto in mio possesso sulla nascita e lo sviluppo della montecarlo sia di serie che da competizione. Ciao
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- Messaggi: 2023
- Iscritto il: 16 dic 2008, 21:44
Re: Bibliografia
Bravissimo AS e grazie per le anticipazioni che hai voluto darci qui da Viva Lancia : in bocca al lupo per la tua meritoria opera editoriale