Lancia 1906-1969

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Lancia 1906-1969

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Prof. FRANCO AMATORI, Docente ordinario presso il Dipartimento di Analisi delle Politiche e Management Pubblico dell'Università Bocconi di Milano. (estratto da Impresa e Mercato: Lancia 1906-1969)

Premessa
Nel variegato panorama dell’industria automobilistica italiana dei primi decenni della sua storia, la Lancia si pone quale interessante caso – fra i pochi – di impresa in grado di restare immune dalla crisi che colpisce molte altre piccole-medie aziende simili. Nel periodo in cui, da un lato, nomi illustri quali l’Itala, la Spa e l’Isotta Fraschini escono di scena e, dall’altro, si afferma il predominio della Fiat, la Lancia pare ritagliarsi una propria ben definita fisionomia d’impresa e un ruolo di tutto rispetto nel mercato automobilistico italiano. Quali le ragioni di questa capacità di resistenza e di consolidamento e quali, invece, quelle di un inesorabile declino che, a partire dal secondo dopoguerra avrebbe condotto la società, priva di una vera guida imprenditoriale, sotto il controllo della Fiat? Ed è proprio quella della capacità imprenditoriale la prospettiva analitica che, soffermandosi sulle strategie dell’impresa, sugli aspetti del mercato, sulle politiche statali nei confronti dell’automobile, ripercorre le vicende aziendali di oltre mezzo secolo.

I. 1906-1922: obiettivo sopravvivere
1. Un settore stretto

Nell’ultimo decennio del secolo scorso in Europa e in America settentrionale maturano le condizioni tecniche e di mercato che consentono all’automobile, fino ad allora bene destinato a pochi, di divenire un bene di consumo diffuso, pur nell’ambito di una organizzazione di tipo artigianale, con elevato grado di specializzazione operaia, bassi livelli produttivi, elevata dipendenza da fornitori esterni per i componenti. Il successivo ampliamento del mercato, la tendenza sempre più marcata alla standardizzazione e alla produzione per parti intercambiabili, la più elevata incidenza del capitale fisso provocata dalla ricerca di una maggiore integrazione produttiva e la necessità quindi di economie di scala, creano le condizioni, già verso la fine degli anni Venti, per il configurarsi di un settore egemonizzato da poche grandi società.
Nel 1929, General Motors, Ford, Chrysler fabbricano più del 90% delle automobili vendute negli Stati Uniti mentre in Germania la Opel perviene ad un quasi monopolio per le cilindrate piccole e medie; questo, naturalmente, non esclude che aziende minori conquistino specifici segmenti di mercato puntando su una strategia di differenziazione. Le caratteristiche dell’ambiente socio-economico italiano dei primi decenni del secolo non sono tuttavia favorevoli ad un’espansione del mercato automobilistico: un prodotto interno lordo per abitante che, nel 1913 e per molti anni a seguire, è circa la metà rispetto a Francia, Germania e Regno Unito e meno di un terzo rispetto agli Stati Uniti; un basso numero di vetture circolanti, concentrato per lo più al Nord; una rete stradale inadeguata che ha visto peggiorare le proprie condizioni a causa dell’incuria degli anni di guerra e di inadeguatezze legislative in merito alla manutenzione.
Nonostante ciò, fin dall’inizio del secolo lo Stato manifesta il proprio interesse fiscale per l’automobile: al 1906 risale la prima tassa di circolazione e a tre anni dopo l’approvazione di una legge che, penalizzando in particolare le vetture con motori di grandi dimensioni, ossia la categoria che meglio resiste alla concorrenza estera, fa esplodere le critiche degli industriali. A ciò si aggiunge l’oneroso dazio sul petrolio e sulla benzina, che fa dell’Italia del primo ventennio del secolo il paese europeo in cui, dopo la Spagna, il prezzo del carburante è più alto.
La protezione doganale, introdotta fin dal luglio 1905, è ritenuta dagli industriali insufficiente poiché poco opportunamente fondata sul peso del veicolo, quindi facilmente eludibile dai produttori stranieri che importano spesso auto prive di alcuni pezzi, aggiunti in seguito.
Le case automobilistiche italiane, peraltro, tentano di superare i limiti del mercato interno volgendosi alle esportazioni: dalle sei unità esportate nel 1900 si passa alle 829 del 1906 e a una quota pari al 45% della produzione nazionale alla vigilia della guerra. Il primo dopoguerra rappresenta il periodo d’oro delle esportazioni che raggiungono, nel 1922, la quota mai più superata del 69% della produzione, nonostante il costante ostacolo rappresentato dalle forti barriere protezionistiche di Stati Uniti, Germania e Francia, assestate, per i primi quindici anni del secolo, su una quota pari al 40% ad valorem. A questo si aggiungono le minacce di dumping, gli elevati costi di trasporto e, soprattutto, gli effetti devastanti della politica deflazionistica di “quota novanta” che precedono quelli ancor più gravi della grande crisi, tanto che, fra il 1926 e il 1931 le esportazioni calano da 34.191 a 11.940 unità.
In tale quadro generale, il mercato automobilistico risulta ben presto dominato da un’unica grande impresa, la Fiat, accanto alla quale si sviluppano solo i piccoli produttori in grado di specializzarsi su una nicchia di prodotto. La società torinese presenta fin dall’inizio grandi mezzi ed ambizioni: un capitale iniziale di 800.000 lire, la partecipazione di importanti nomi della Torino di fine secolo e di una banca di grandi tradizioni, sebbene in declino, come il Banco Sconto e Sete, un leader, Giovanni Agnelli, che comprende che il divario nei confronti delle esperienze straniere può essere colmato solo abbandonando il costoso e velleitario sperimentalismo artigianale ed abbracciando la produzione in serie.
Certo, nei primi decenni del secolo le automobili Fiat restano vetture di lusso, incluso il modello Zero del 1912, che taluni elementi potrebbero far ritenere un primo esempio di “utilitaria”. Ma le condizioni del mercato spingono la società verso una notevole diversificazione produttiva – sia in forma di varietà di modelli che di estensione alla produzione di motori marini e veicoli industriali – e una massiccia integrazione verticale – dalle produzioni metallurgiche a monte, alla carrozzeria, a valle, ma anche alla distribuzione, con la creazione di una estesa rete di vendita – realizzata attraverso acquisizioni o partecipazioni in società.
Alla vigilia della prima guerra mondiale la Fiat si configura quindi come una grande impresa in senso moderno.
Altre società, che per consistenza economica e industriale per strategie produttive possono essere paragonate alla Fiat, appaiono, per ragioni diverse, condannate all’insuccesso. È il caso dell’Itala e della Spa, creazioni di Matteo Ceirano, che passano però ben presto sotto il controllo dell’avventuroso banchiere genovese Giovan Battista Figari, la prima, e della Banca Italiana di Sconto, la seconda. Analogamente, i fondatori dell’Isotta Fraschini, pur mantenendo il controllo della gestione, perdono quello della proprietà, lasciando spazio agli spregiudicati speculatori come Cella e Mazzotti Biancinelli. Ma il fattore decisivo della crisi di queste ed altre imprese appare l’approccio al mercato, fondato sull’offerta di numerosi modelli e la ricerca di una diversificazione produttiva in settori limitrofi, dalle biciclette ai motori marini, ai veicoli industriali: in sostanza, la stessa strategia della troppo potente concorrente Fiat.
Se è vero che la prima guerra mondiale costituisce un potente volano per l’industria automobilistica italiana – le unità in circolazione passano dalle circa 20.000 del 1914 alle 80.000 del 1918 e le imprese, incluse quelle di componenti, da 32 a 53 per molte aziende essa si rivela una formidabile trappola poiché provoca una artificiosa crescita ed accentua la già pericolosa diversificazione e l’allontanamento dalla core technology. Non solo: molte piccole e medie aziende tentano di produrre piccole cilindrate per le quali il mercato italiano offre però assai scarse possibilità. La vicenda di questi produttori, tra cui si annoverano anche alcuni famosi piloti come Luigi Storero o Felice Nazzaro i quali, con Vincenzo Lancia, fanno parte della prima squadra corse della Fiat, non è che la punta di un iceberg rappresentato da tantissimi tentativi che non riuscirono a decollare dal livello artigianale.
Il caso di Vincenzo Lancia presenta caratteri di unicità tali da far sì che la sua azienda sia l’impresa di nicchia che sopravvive alla competizione darwiniana dei primi tre decenni del secolo. Quando, nel 1906, inizia la sua carriera di industriale, Lancia è uno dei più famosi piloti del mondo; eppure egli sa mettere da parte ogni tentazione sportiva e progetta automobili forse non particolarmente innovative, ma di ottime prestazioni, con un equilibrato rapporto peso/potenza, individuando con precisione la propria fascia di mercato, quella medio-alta. Altro elemento significativo della business idea di Lancia è il concentrarsi sulla produzione automobilistica, anche negli anni della guerra, durante i quali gli chassis delle auto di lusso vengono adattati agli usi militari. Non irrilevante, infine, per comprendere la tenuta dell’azienda, è il rapporto instaurato con la Fiat: la documentazione in nostro possesso non è sufficiente per confermare, come si è affermato, che la Lancia si sviluppa con il lungimirante consenso di Agnelli, preoccupato di proteggersi sulla fascia alta del mercato dalla concorrenza straniera. Resta il fatto che dagli atti delle associazioni imprenditoriali i rapporti tra le due aziende risultano buoni, privi di frizioni concorrenziali e anzi improntati ad una collaborazione sul piano produttivo.

2. L’imprenditore

Quando Vincenzo Lancia, alla fine dell’Ottocento, fa il suo ingresso nel mondo del lavoro, ha alle spalle una solida condizione economica ereditata dal padre Giuseppe, affermato uomo d’affari e ingegnoso inventore nel campo della conservazione degli alimenti. Giovane estroverso ed esuberante, insofferente alla disciplina scolastica, affascinato dal mondo delle officine meccaniche, Lancia muove i suoi primi passi di imprenditore in una Torino appena uscita dalla gravissima crisi di fine anni Ottanta che, tuttavia, non ha intaccato la solidità di un settore metalmeccanico fondato sull’Arsenale, le costruzioni ferroviarie e su aziende private quali l’Ansaldo, la Dubosc, le Officine di Savigliano, le Ferriere Piemontesi. La débâcle finanziaria dei primi anni Novanta, inoltre, non aveva completamente vanificato la consistenza di risorse finanziarie disponibili per l’investimento nel settore secondario, risorse che le prospettive dell’industria automobilistica contribuiranno potentemente a “scongelare”. Nascenti istituzioni culturali e scientifiche quali il Laboratorio di Economia politica, il Politecnico, l’Istituto professionale, favoriscono inoltre lo sviluppo di un clima intellettuale assai favorevole all’industrialismo.
A partire dagli ultimi cinque anni del secolo prendono il via una serie di iniziative nel campo automobilistico tra cui spicca, per significatività, quella del cuneese Giovanni Battista Ceirano che pur con scarsi capitali e limitate relazioni sociali riunisce un gruppo di collaboratori di prim’ordine in grado di offrire il miglior veicolo progettato integralmente a Torino.
E’ proprio nell’officina della ditta, collocata al piano terreno del palazzo in cui Vincenzo Lancia vive con la famiglia, che il giovane si dedica al disegno, costruzione e riparazione delle vetture, strettamente a contatto con il progettista della Ceirano, Aristide Faccioli.
Nel 1900, con il passaggio della società alla Fiat, il non ancora ventenne Lancia entra in contatto con una superiore realtà tecnica ed organizzativa che segnerà profondamente il suo atteggiamento di industriale attento a non porre in conflitto esigenze sportive e di sperimentazione con i concreti vincoli del mercato. Divenuto rapidamente collaudatore e membro della squadra corse, per otto anni Lancia sarà il pilota della Fiat e si conquisterà la fama di guidatore più veloce del periodo.
Non mancandogli competenza, notorietà, solidità economica e buone amicizie, ben presto egli decide, pur continuando per altri due anni a correre per la Fiat a condizioni economiche assai vantaggiose – un compenso fisso più 50.000 lire in caso di vittoria, somma pari a quanto egli versa per fondare la propria azienda – di tentare la strada del costruttore in proprio avvalendosi della collaborazione di un altro collaudatore Fiat, Claudio Fogolin. Obiettivo principale, la produzione di piccole vetture da città.
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3. I primi anni in via Ormea (1906-1910)

La Lancia & C., società in nome collettivo, viene costituita a Torino il 29 novembre 1906 con capitale di centomila lire suddiviso in parti uguali fra Vincenzo Lancia e Claudio Fogolin ed inizia l’attività in uno stabile in via Ormea precedentemente occupato dall’Itala.In questi anni il settore automobilistico, che in molti casi aveva subito una crescita talvolta indiscriminata e fondata su forti interessi speculativi, sta attraversando una difficile congiuntura che trova origine dal crollo dei titoli azionari e dal conseguente generalizzato disagio finanziario: tra il 1907, anno culminante della crisi, e il 1910 il numero di imprese si riduce da 60 a 22.
Al momento poco propizio si aggiunge una circostanza sfortunata: nel febbraio 1907 un incendio distrugge disegni e modelli di fonderia e danneggia anche gravemente le parti già in lavorazione e il macchinario.
Tuttavia, la prima nata della ditta, la 12HP del 1907 – in seguito rinominata Alfa – viene presentata al Salone di Torino del 1908: la seguiranno la 18HP (Dialfa) a 6 cilindri, la 15HP (Beta), una 4 cilindri monoblocco dalla quale deriveranno tutte le altre fino alla DiKappa del primo dopoguerra, e la 20HP (Gamma) del 1910, la più veloce fra le prime Lancia.
In questi modelli compaiono già concezioni progettuali che caratterizzeranno l’impresa: vetture leggere ma compatte, rifinite ma funzionali, veloci e capaci di accelerazioni senza scatti, rivolte ad una clientela di intenditori di fascia medio-alta alla quale si intende però proporre un prezzo ragionevole (dalle 10 alle 14 mila lire per l’Alfa).
In definitiva, una vettura – intermedia fra i tipi di grandi dimensioni e le brillanti ma fragili vetturette prodotti in quegli anni – nella quale la cura per la solidità dello chassis e per un equilibrato rapporto tra velocità e sicurezza prevale sulla ricerca di una elevata potenza del motore.
L’accoglienza è generalmente buona sia in Italia che all’estero, dove, forte dell’ancor recente clamore delle sue imprese di pilota, Lancia rivolge fin dall’inizio le proprie attenzioni creando, soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, un efficiente servizio di parti di ricambio.
Nonostante i notevoli ampliamenti della fabbrica, la produzione mantiene però i livelli modesti delle 131 unità nel 1908, 150 l’anno successivo, 258 nel 1910, ad evidenziare il fatto che lo stabilimento – che nel 1907 impiega 70 operai – è una tipica grande bottega con struttura organizzativa assai arretrata: un’officina macchine utensili, il montaggio, il reparto motori, organizzati secondo il tradizionale modello a workshop.
Alla modesta consistenza degli impianti – assente il reparto fonderia e carrozzeria – corrisponde una forza lavoro ancora caratterizzata da una elevata presenza del “mestiere”: il libro inventario elenca, accanto a ciascun operaio, un “corredo” di attrezzi da lavoro che va dai martelli, alle lime, alle mordancie, alle tenaglie.

4. A Borgo San Paolo nella fabbrica della Fides (1911-1914)

Nel 1911, la burrasca iniziata quattro anni prima appare definitivamente alle spalle: il settore metalmeccanico torinese ha visto incrementare i propri addetti dai 9.000 di fine secolo ai 30.000, di cui quasi un terzo impiegati nella produzione di automobili e dei suoi accessori. C’è però un dato nuovo: quasi tutte le aziende, oltre agli chassis, costruiscono ora anche pezzi di meccanica varia, materiale ferroviario, e – incentivati dalla campagna italo-turca – motori aerei, marini e mitragliatrici. Altro elemento di novità è costituito dalla decisione delle maggiori imprese di non partecipare, almeno in Italia, a competizioni sportive, non più ritenute un fondamentale veicolo di promozione delle vendite. Pressante è piuttosto l’esigenza di una razionalizzazione produttiva e commerciale per affrontare una concorrenza straniera, nella fattispecie americana, che comincia a farsi sentire non solo sul mercato interno ma anche in quello inglese e sudamericano, tradizionalmente favorevoli alle case italiane. La solidità economica delle aziende automobilistiche torinesi, riunitesi in un Consorzio automobilistico fondato per iniziativa di Agnelli nel 1911, non pare tuttavia intaccata.
Il 14 gennaio 1911, la Lancia, seguendo la Diatto, la Spa, la Fides ed altre aziende automobilistiche, si trasferisce nell’area di Borgo san Paolo, che sta vivendo un rapido mutamento e si sta avviando ad assumere i connotati della tipica periferia industriale. Nei locali che erano stati occupati dalla Fides, Vincenzo Lancia attua un programma di consolidamento e sviluppo incentrato, in primo luogo, su un impegnativo programma di acquisti di terreni e fabbricati per una superficie complessiva di circa 100.000 metri quadri. La prima grande novità è la comparsa, accanto all’officina generale, della carrozzeria; gli operai, 390, sono più che quintuplicati e netto è l’incremento degli utensili. Anche il disegno organizzativo subisce alcune significative variazioni puntualmente registrate dai libri inventario: Lancia è direttore generale, Fogolin è direttore commerciale; sono presenti un ufficio tecnico, un ufficio contabilità e una cassa. Negli anni successivi, la costruzione della fonderia – indice di una aspirazione all’integrazione verticale – e l’adozione del sistema del Platzarbeit, con le macchine raggruppate per tipo, l’azienda risulta avviata verso una fase di assestamento tecnico ed organizzativo. In questi anni escono dalle officine due 20-30HP (Delta ed Epsilon), la veloce 50HP (Eta), la 12HP (Zeta), fabbricata in pochissimi esemplari, e lo chassis dell’autocarro leggero 1Z, fornito all’Esercito per la guerra di Libia e rielaborato poi per dal luogo alla 35HP (Theta), versatile ed apprezzata dal mercato. Per ogni tipo è prevista un’ampia varietà di scelta: Vincenzo Lancia non intende infatti rinunciare alla clientela sportiva e già dal 1908 affianca ad ogni chassis normale uno più corto da competizione. Soprattutto caratterizzante è la sofisticata rifinitura: i pedali ricoperti in gomma, il rivestimento in cuoio per la manovella dell’avviamento, la ruota di riserva in una custodia impermeabile, il cassettone in legno con gli attrezzi per le riparazioni. Fondamentale risulta quindi la collaborazione con i migliori carrozzieri italiani – da Garavini a Farina – e stranieri – Maythorn e Mulliner . Accanto al potenziamento dell’estesa rete di vendita nelle principali città italiane, l’esportazione resta un obiettivo di rilievo nella politica commerciale della società: del 1912 è il “modello coloniale” concepito non solo per il Nord Africa e le colonie inglesi, ma anche per l’Argentina e la Russia. I risultati, nonostante l’inizio del conflitto europeo e la riduzione a cinque ore del lavoro giornaliero, sono incoraggianti: un record di utili contabilizzati di 766.630 lire. Il 1912 è però anche il primo di due anni turbolenti sul piano delle relazioni sindacali: il lungo sciopero del gennaio guidato dal Sindacato autonomo metallurgico e quello dell’anno successivo, condotti dalla Fiom di Bruno Buozzi, sfociano in una concessione di aumenti salariali, di una modesta riduzione dell’orario di lavoro e nel riconoscimento delle commissioni interne.

5. Stabilimento ausiliario (1915-1918)

A partire dal novembre 1915 la Lancia, che conta 600 addetti, diviene stabilimento ausiliario e, come tale, sottoposto al coordinamento del Comitato regionale per la Mobilitazione industriale per il quale produrrà 3.000 autocarri e autovetture: poca cosa, se confrontati agli 80.000 veicoli complessivamente prodotti dall’industria automobilistica italiana e ai 68.000 della sola Fiat, dominatrice incontrastata del mercato anche nel redditizio affare dei motori per aerei.
Anche la Lancia, come tutte le altre aziende del settore, non si sottrae alla “tentazione” del motore aereo, limitandosi però al piano progettuale e comunque non realizzando produzioni in serie: il reparto aeroplani e la fonderia di alluminio, aperti nel 1915, mantengono infatti una limitata consistenza impiantistica e, pare, sono in grado di realizzare un buon motore solo quando la guerra è alla conclusione.
Le esperienze in questo campo contribuiscono peraltro al progresso tecnico dell’azienda, soprattutto nella costruzione del motore a V, brevettato nel 1915 e montato nel 1917 su un aereo Caproni, che segna il superamento del sistema in linea ed apre la nuova fase progettuale del dopoguerra.
Ma è la produzione di autoveicoli ad assorbire in misura preponderante le risorse dell’azienda; dal giugno 1915 la Lancia consegna all’Esercito un autoblindo preparato in collaborazione con l’Ansaldo e costruito sullo chassis della Theta, opportunamente rinforzato.
Successo maggiore hanno gli autocarri, con una produzione media annua di 400 unità tra il 1915 e il 1917, e i camion: all’iniziale 1Z, e originati dallo stesso motore che già aveva dato luogo alla Theta, si affiancano lo Jota e il Djota.
Nonostante la prevalenza della produzione di grossi veicoli, l’impresa cerca sempre di associare la propria immagine all’elevata qualità: in piena guerra e nonostante i divieto di circolazione delle automobili private entrati in vigore nel settembre del 1917, la Lancia, vettura signorile per eccellenza, continua ad essere pubblicizzata quale simbolo di lusso ed eleganza.
Al termine del conflitto lo stabilimento della Lancia non è di molto ampliato rispetto al 1915 – si sono aggiunti la già citata fonderia, il reparto aeroplani, il locale per lo stampaggio e la fonderia per alluminio – né significativi sono i mutamenti all’interno dell’officina generale.
Probabilmente intensificati sono invece i ritmi di lavoro visto l’incremento della dotazione di torni, frese, trapani, rettifiche, alesatrici.
Il patrimonio aziendale calcolato in occasione del ritiro dalla società di Claudio Fogolin nel 1918 ammonta a circa sei milioni di lire e gli utili reali per il triennio 1915-1917 rispettivamente a 1.412.000, 986.999, 3.405.000 lire contro 784.000, 798.000 e 1.130.000 lire registrati nei libri contabili.
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6. Una riconversione non troppo difficile (1918-1922)

Nei primi mesi del dopoguerra il mercato automobilistico presenta caratteri di relativa instabilità: il controllo monopolistico della benzina da parte dello Stato ne fa temere un aumento del prezzo; la scarsa flessibilità della macchina burocratica dell’Esercito fa sì che la smobilitazione e l’ingresso nel mercato delle vetture superflue e la rapida liquidazione delle forniture residue appaiano obiettivi lontani. A questo si aggiunge la generalizzata difficoltà per le industrie automobilistiche italiane, prima fra tutte l’Alfa Romeo, ma anche l’Isotta Fraschini e l’Itala, che devono affrontare un sovradimensionamento impiantistico e la necessaria riconversione.
In questo quadro, ad una vivace domanda e un grande incremento dei veicoli circolanti, non fa riscontro un incremento significativo della produzione: l’impennata dei prezzi delle vecchie vetture conferma che in questi mesi il ripristino dei modelli d’anteguerra è massiccio.
Nonostante ciò, l’industria automobilistica italiana compie un discreto rientro nei grandi appuntamenti espositivi internazionali – fra tutti il Salone di Parigi del 1919 – poiché in generale i suoi modelli appaiono in sintonia con le tendenze dominanti della domanda: nuovi materiali, acciai speciali in sostituzione della ghisa, vetture costose e di alta cilindrata.
In questa occasione, nello stesso anno in cui, per la prima volta dal 1907, l’azienda chiude con un bilancio in perdita di un milione e mezzo a causa degli impegnativi acquisti di materiale per una ingente commessa di autocarri ottenuta alla vigilia dell’armistizio, la Lancia presenta una vettura a 12 cilindri di grande potenza e di gran lusso.
Le sperimentazioni compiute sui motori aerei danno luogo a interessanti innovazioni tecniche sul motore a 12 cilindri a V ad angolatura stretta che solo nel 1922 viene prodotto in serie – nella versione a 8 cilindri – con la Trikappa, mentre continua il successo del motore in linea a 4 cilindri nella Kappa e sui due autocarri Triota e Tetraiota, successo che consente una notevole concentrazione delle risorse e di economie di scala.
Nonostante le oscillazioni della produzione si registrano avanzamenti sul piano impiantistico e tecnico-organizzativo: l’ampliamento del reparto carrozzeria, la creazione di nuovi reparti radiatori, esperienze ed utensileria, l’incremento di macchine utensili. La creazione di un reparto lavorazione cilindri, inoltre, rappresenta il primo passo verso un layout in cui le macchine vengono raggruppate per fabbricare “famiglie di pezzi” così da ottenere un considerevole risparmio nei tempi di trasporto e una maggiore fluidità del ciclo produttivo.
Una realtà sociale, politica ed economica fra le più difficili da affrontare – lo “sciopero delle lancette” alla Fiat, la serrata del marzo 1920 e l’occupazione delle fabbriche – sembra tuttavia contrastare con la notevole vivacità progettuale e costruttiva di questi anni, in cui compaiono sul mercato la famosa Tipo 8 dell’Isotta Fraschini e la 501 della Fiat.
Molto contrastati sono anche i rapporti fra gli industriali e il potere politico in merito alla normativa fiscale sugli autoveicoli e alle decisioni della commissione parlamentare per il riesame dei contratti stipulati durante il conflitto fra lo Stato e le imprese.
Ma, soprattutto, l’industria automobilistica deve affrontare i gravi effetti della crisi che si abbatte sull’economia del paese nei primi mesi del 1921 e che si manifesta con una caduta dei prezzi che, nei veicoli di seconda mano, raggiunge il 70%; a questo si aggiunge la moratoria della Banca italiana di sconto a cui erano legate l’Alfa Romeo, la Spa, l’Isotta Fraschini.
Del vivace clima di rinnovamento tecnico, Vincenzo Lancia è protagonista di primo piano con la Lambda, la vettura grazie alla quale egli acquista la reputazione di progettista fra i più audaci del panorama internazionale: un motore a 4 cilindri a V con angolo a 13 gradi, tale da consentire una costruzione compatta e leggera; un avantreno a ruote indipendenti, ma, soprattutto, la scocca portante (ossia la fusione tra la carrozzeria e telaio), che dimezza il peso della vettura rispetto ai modelli di pari cilindrata ed offre una maggiore resistenza agli urti.
La vettura, presentata nell’autunno del 1922 ai Saloni di Londra e di Parigi, ottiene commenti non concordi che spaziano dall’esaltazione per le innovazioni alle critiche per il disegno basso e squadrato e l’eccessiva rumorosità del motore. Ma quello che più conta è che la Lambda si propone come l’unica vera automobile italiana “media”, ma di alta classe, in grado di fornire prestazioni d’eccezione e indubbia comodità ad un prezzo 35.000 lire, non troppo superiore a quello della Fiat 501, ottenendo così uno straordinario successo di mercato con 13.000 esemplari venduti fra il 1923 e il 1930.
Ma al di là delle innovazioni tecniche, l’impresa attraversa questo difficile periodo senza dover affrontare drastici disegni di riconversione: essa continua infatti a produrre autovetture ed autocarri durante e dopo la guerra senza avere il tempo di avventurarsi nella rischiosa produzione di motori aerei. Anche per questo, dal 1919, l’impresa registra solo utili.

II. Lancia 1922-1939: gli anni del successo e del consolidamento
1. Il settore automobilistico in Italia negli anni fra le due guerre: un’evoluzione che favorisce la Lancia

L’evoluzione complessiva del settore automobilistico italiano, i suoi ritmi di sviluppo, la definizione dell’assetto competitivo, bene si adattano al percorso di una azienda come la Lancia che mira alla differenziazione del proprio prodotto, alla costruzione di un numero relativamente limitato di veicoli e che di sicuro non ricerca un’organizzazione interna di tipo fordista. Negli anni Venti, il settore automobilistico cresce significativamente: i veicoli prodotti passano dai 16.340 del 1922 ai 70.000 del 1939 e i quelli circolanti da 65.484 a 291.463 unità.
Maggiore è anche l’attenzione del potere politico che, pur non formulando un sistematico piano di sviluppo paragonabile a quello della Germania hitleriana, interviene con alcune significative misure in sostegno del settore.
Si pensi all’istituzione, nel 1927, del Pubblico Registro Automobilistico e, due anni dopo, dell’Azienda autonoma statale della strada (oggi Anas), all’entrata in vigore del nuovo codice della strada, alla tariffa del 1921, che elevava una consistente barriera all’importazione di macchine straniere e, soprattutto, all’introduzione di un dazio del 100% ad valorem e del veto a qualsiasi iniziativa di produzione diretta in Italia da parte della Ford.
Nel 1925, lo stesso anno in cui viene istituita l’Agip, viene inoltre inaugurata la Milano-Laghi, primo tratto dei 500 chilometri di autostrade che l’Italia potrà vantare nel 1939. Probabilmente né queste né più efficaci misure di sostegno avrebbero potuto impedire che l’industria automobilistica soffrisse gli effetti di un periodo dominato da un forte andamento ciclico; l’espansione degli anni 1922-1926 conduce infatti ad un record produttivo di 60.500 vetture e di 3.300 veicoli industriali, ma la politica deflazionistica di “quota novanta” provoca nel 1927 una immediata contrazione del 15% sia per l’aumento dei costi che per le inevitabili difficoltà poste all’esportazione.
A ciò si aggiungono gli effetti della grande crisi, che in Italia si presenta in tutta la sua gravità nel 1930 con un crollo della produzione di autovetture e veicoli industriali a 24.800 unità nel 1931. Va inoltre rilevato che l’Italia fascista resta un paese con un reddito pro capite notevolmente inferiore a quello delle nazioni che la precedono nella classifica dei fabbricanti di automobili; questa ristrettezza del mercato interno, alla quale non può sopperire oltre un certo limite l’esportazione, contribuisce in misura determinante alla scarsa capacità di sfruttare economie di scala.
Da questo punto di vista, la Lancia, assestata su limitate dimensioni produttive, non risulta penalizzata. Inoltre, in un mercato controllato già attorno al 1920 per il 70% e negli anni Trenta per l’80% dalla Fiat, la Lancia sopravvive a differenza di molte altre case medio-piccole che, alla vigilia del secondo conflitto mondiale risultano fuori mercato, vengono assorbite da altre imprese (é il caso della Spa, la Scat, la nuova Ansaldo, l’Itala e la OM, controllate dalla Fiat), o si rivolgono ad altre attività (si pensi alla Diatto riconvertitasi ai motocompressori, e alla Bianchi, che alla fine degli anni Trenta si dedica quasi esclusivamente ai veicoli industriali). La stessa Alfa Romeo, “salvata” dall’IRI, pur continuando una produzione automobilistica di grande prestigio, è sostanzialmente impegnata nel settore aeronautico.
Le vicende interne al settore consentono quindi alla Lancia di occupare, nel decennio precedente il secondo conflitto, buona parte dello spazio consentito dall’egemonia della Fiat, che aveva superato le tempeste del primo dopoguerra e anzi aveva consolidato la sua posizione al vertice del sistema industriale italiano potenziando anche il processo di integrazione verticale sostenuto dalla fiducia degli ambienti finanziari.
La Lancia conferma cioè il suo carattere di impresa “di nicchia” incentrata sull’eccellenza tecnica e sulla produzione di modelli di lusso rivolti ad una selezionata clientela, non entrando quindi in competizione con la Fiat, che costruisce la propria strategia sulla grande quantità – si pensi alla 508, la famosa Balilla, apparsa dopo il 1925 – sulla presenza in tutti i segmenti del mercato e sul prezzo relativamente accessibile.
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2. La Lancia: un’impresa diversa

Il vertice di innovazione toccato con la Lambda, prodotta sino al 1931, non viene più raggiunto nei modelli successivi, anche se numerose sono le soluzioni originali che rispondono prioritariamente all’obiettivo della sicurezza: la scocca portante o il pianale con i longheroni scatolati quando il telaio è separato dalla carrozzeria, i freni idraulici, tra i primi nella produzione europea. Pari attenzione viene dedicata ad un soddisfacente rendimento del motore e alle esigenze di comodità del guidatore e dei passeggeri, con la cura per le sospensioni, l’uso dei cuscinetti Silentbloc, il montaggio elastico del motore nell’Astura e nell’Artena.
Come nel periodo precedente il primo conflitto mondiale, lo stretto rapporto con i carrozzieri, che apprezzano particolarmente la vettura d’élite e che utilizzano chassis Lancia rivestendoli con le loro realizzazioni, rappresenta un non trascurabile vantaggio per l’impresa che, al salone di Milano, risulta la casa con la maggioranza assoluta delle vetture esposte. Elemento non irrilevante a spiegare il successo dell’azienda è inoltre la fama delle Lancia come auto sportive. Vincenzo Lancia non ha infatti dimenticato il suo passato di pilota e la popolarità delle Mille Miglia – l’esordio è del 1927 – lo convince dell’esigenza di dover preparare alcune vetture per la gara.
Nell’edizione del 1928 viene sfiorata una clamorosa affermazione, con la Lambda seconda assoluta, dietro all’Alfa Romeo di Campari, sino a trecento chilometri dall’arrivo; altre significative affermazioni quelle ottenute alla fine degli anni Trenta dall’Aprilia, condotta da piloti che tuttavia partecipano alle gare in forma privata.
Considerando l’evoluzione della strategia produttiva e commerciale dell’impresa lungo il periodo considerato, è possibile individuare una prima fase, dal 1923 alla fine del decennio, in cui l’azienda si concentra sulla produzione di un limitato numero di tipi e in particolare sulla Lambda, che incide per il 74,2% della produzione totale e per il 95,4% di quella di automobili e che, nel 1926 e 1927 è l’unica vettura costruita.
Non trascurabile è la produzione di veicoli pesanti e decisive, nel complesso, risultano le esportazioni.
A partire dal 1930, con le conseguenze della grande crisi, l’azienda subisce un forte calo di vendite ed esportazioni, parzialmente attenuato da una consistente commessa di veicoli industriali in Unione Sovietica, dal successo dell’ultima serie della Lambda e della lussuosa Dilambda, che garantiscono elevati profitti unitari ed un discreto risultato economico.
Negli anni successivi, la maggiore attenzione al mercato interno e le possibilità aperte dalla crisi delle altre marche inducono la società a perseguire una politica di diversificazione produttiva che conduce alla realizzazione dell’Artena, l’Astura, la Dilambda e anche veicoli industriali e per trasporto passeggeri quali il Ro, l’Esajota, l’Omicron. Ma l’impennata delle vendite è garantita dalla piccola vettura a prezzo relativamente contenuto proposta nel 1933, l’Augusta.
Il 1935, con la guerra d’Etiopia e la politica di riarmo, la costruzione di veicoli pesanti, in ristagno, subisce un notevole incremento fino a raggiungere il 20% del totale; accanto a questo ritrovato legame con la domanda pubblica prende avvio il programma per l’apertura di “filiali dell’impero” e la costruzione dello stabilimento di Bolzano.
Resta tuttavia invariato l’orientamento precedente nei confronti della produzione di vetture: nel 1937, al di sopra della Fiat 500, l’unica vettura di piccole dimensioni, l’Aprilia, compete, tra le 4 cilindri, con la Balilla e la Bianchi S9, mentre alle 8 cilindri Dilambda e Astura si contrappone solo l’Alfa Romeo 8C2900.
Sino al secondo conflitto mondiale la fabbrica di Borgo San Paolo conosce un’espansione continua e graduale, alla quale si accompagna un sostanzioso incremento delle macchine utensili, che passano dalle 431 del 1922 alle 1.037 del 1929.
L’azienda, a fine anni Venti, sembra quindi disporre di tutti i reparti necessari alla costruzione di un’automobile: una fonderia di ghisa e di alluminio, una officina generale, una carrozzeria, un reparto modellatori e uno riparazioni.
L’organizzazione del lavoro può ancora essere definita di tipo “misto” con reparti che raggruppano tipi omogenei di macchine utensili e lavorazioni incentrate su uno specifico pezzo ma, dalla relazione di un tecnico Alfa Romeo scritta nel 1941 apprendiamo che la Lancia è l’unica azienda italiana oltre alla Fiat ad aver introdotto la catena di montaggio.
Vincenzo Lancia ha un ruolo di assoluta centralità nella vita dell’impresa: fondatore, leader carismatico, animatore del gruppo di progettazione, collaudatore finale, padrone vecchio stile. Variabile critica del sistema aziendale é il gruppo dei progettisti che lavorano a stretto contatto con Lancia: il direttore tecnico Zeppegno, il responsabile della progettazione dei motori Rocco e il direttore del reparto “esperienze” Scacchi, che avevano lavorato alla Fiat sin dai primi anni, e Giuseppe Baggi, professore incaricato di tecnica delle costruzioni meccaniche al Politecnico di Torino e dal 1925 direttore tecnico della società. Anche nell’assetto proprietario non risultano altre presenze se non di familiari o amici di vecchia data come i Vaccarossi; la trasformazione in società per azioni avvenuta nel 1930 appare infatti più un evento formale e, alla fine degli anni Trenta, i Lancia controllano “ufficialmente” il 54% delle azioni.

3. I più importanti tentativi all’estero

Nella seconda metà degli anni Venti, nonostante la rivalutazione della lira, le esportazioni continuano a rappresentare una componente di grande rilevanza per la strategia commerciale dell’impresa. Nel 1928 la Lancia dà inizio ad un ambizioso progetto per la produzione di vetture negli Stati Uniti dove, già dal 1908, era presente con agenzie di vendita e dove, nel 1925, il banchiere americano Frank M.Ferrari aveva dato vita alla Lancia Motor Sales Corp.
Nel Paese che aveva visto il trionfo sportivo del suo fondatore, la vettura Lancia era passata dalla fascia alta del mercato, quella delle auto di lusso, a quella di vettura per di quanti siano in grado di apprezzarne le speciali qualità costruttive, le prestazioni, la cura artigianale.
La Lancia Motors of America, con capitale iniziale di tre milioni di dollari (quasi equivalente a quello della Lancia italiana quando, nel 1930, si costituisce in società per azioni) intende produrre, nel vecchio stabilimento della Fiat a Poughkeepsie NY, 3.000 vetture l’anno. Motore e organi di trasmissione sarebbero stati invece costruiti a Torino, allo scopo di evitare gli effetti della protezione doganale. Ma nel gennaio del 1929, a prototipo presentato, Lancia comprende che dietro l’iniziativa americana c’è solo un gruppo di speculatori che non intende affatto costruire automobili, e denuncia l’accordo. Il fallimento della società, coinvolta nel dissesto finanziario delle imprese legate a Ferrari e il “giovedì nero” di Wall Street ridimensionano bruscamente ogni progetto americano limitando l’attività della casa torinese alla gestione delle agenzie di vendita.
Sempre nel 1928, certamente con l’intenzione di rafforzare una presenza già particolarmente significativa, ma anche per rispondere ad una congiuntura che vedeva una caduta delle importazioni di veicoli italiani, la Lancia avvia una società per la commercializzazione, l’assistenza e la fornitura di parti di ricambio in Inghilterra.
La Lancia England ha sede a Londra, nell’area industriale di Wembley Alperton ed è amministrata da W.L.Stewart, che già da vent’anni era interessato all’attività di commercializzazione della Lancia in Inghilterra.
Una inadeguata politica aziendale conduce tuttavia l’impresa sull’orlo del fallimento: nel 1934 un inviato italiano trova una insufficiente struttura commerciale e constata l’impossibilità di concedere competitivi sconti ai rivenditori. Nell’impossibilità sia di individuare nuovi azionisti britannici che di produrre auto in loco, la società attua una gestione ridotta volta a mantenere in vita il servizio di assistenza ai clienti e a potenziare gradualmente la rete di vendita.
Analogo sfortunato esito ha la Lancia Automobiles francese, nata nel 1931 e, come nel caso della Lancia England, con la proprietà saldamente controllata da Lancia e dai suoi soci italiani. La società svolge un’attività di produzione diretta nello stabilimento di Bonneuil-sur-Marne, che impiega 500 addetti e, a partire dal 1934, produce l’Augusta e l’Aprilia nella versione francese della Belna e della Ardennes.
Le ingentissime perdite e la scarsa competitività delle Lancia sul mercato francese avviano però la società ad una pesante svalutazione del capitale sociale e ad una operazione di risanamento alla fine degli anni Trenta.
Le ragioni di questo modesto esito della Lancia multinazionale risiedono probabilmente nell’assenza di una estesa rete di manager, indispensabile a garantire il successo di una simile esperienza come dimostra il contemporaneo esempio della Fiat; nei paesi stranieri, inoltre, era assai improbabile poter aprire un grande mercato e proporre le vetture a prezzi competitivi. Le favorevoli condizioni che, negli anni Venti e Trenta, si erano create per la Lancia sul mercato nazionale, all’estero si rivelavano irripetibili.

4. Le commesse statali

Rispetto all’attività delle consociate estere, nel periodo precedente la seconda guerra mondiale un’importanza molto maggiore ha per la Lancia la domanda pubblica di veicoli pesanti, sia per quanto attiene al generale andamento economico dell’azienda, sia in relazione a scelte produttive che peseranno notevolmente sul suo futuro.
Già nella seconda metà degli anni Venti la produzione di camion incide per il 25% delle unità fabbricate con 599 chassis nel 1925 e oltre 700 nel 1929; autocarri e torpedoni Lancia, prima della grande crisi, si vendono bene anche fuori dall’Italia, soprattutto in America Latina e in Gran Bretagna.
Si tratta però di un mercato essenzialmente civile: all’indomani del primo conflitto, infatti, nessun modello Lancia viene indicato fra quelli da conservare per le forze armate dopo la smobilitazione e allo stesso modo nessuna Lancia risulta fra autoambulanze, trattori per artiglierie ed autocarri leggeri e pesanti commissionati dall’Esercito lungo gli anni Venti.
Nel 1927, inoltre, l’Ansaldo si aggiudica la gara a cui anche la Lancia ha partecipato, per la realizzazione di un camion con caratteristiche speciali.
Alcune opportunità per l’azienda torinese giungono invece dagli enti locali: per il Comune di Roma la Lancia fornisce l’Omicron, un telaio progettato esplicitamente per il trasporto passeggeri, e costituisce una società per la manutenzione degli autobus. Altra commessa di rilevo, quella di veicoli utilizzati come autobus per l’Unione Sovietica.
Dopo il netto calo successivo al 1931, la ripresa della produzione di veicoli industriali va attribuita alla congiuntura determinatasi con la guerra in Africa Orientale; fra il 1935 e il 1940, infatti, il 40% del fatturato della società proviene dalla vendita di autocarri, soprattutto della serie Ro.
I rapporti con il potere politico giocano un ruolo centrale nella vicenda della costruzione degli stabilimenti di Bolzano, una fonderia a completamento delle attività torinesi, e Addis Abeba, un’officina impiegata soprattutto nella riparazione dei veicoli militari. Il primo insediamento rientra infatti nel più vasto progetto di creazione della zona industriale di Bolzano con l’evidente obiettivo di attenuare la schiacciante superiorità demografica dell’elemento etnico tedesco della provincia.
Nonostante le agevolazioni, tuttavia, il costo dei trasporti fra lo stabilimento e la sede torinese risulta tanto elevato da rendere necessaria la “separazione” dei due impianti e la destinazione del primo alla costruzione, in piena autonomia, di autoveicoli: nel 1939 iniziano i lavori per la realizzazione dei reparti di meccanica e montaggio mentre un accordo con la Viberti consente di provvedere alla carrozzeria ma solo nel 1943 uscirà dalle linee di montaggio il primo veicolo interamente prodotto in loco.
Questo dinamismo nel settore dei veicoli industriali, a cui si accompagna una crescita degli investimenti, del fatturato e degli utili, nasconde tuttavia i segni di saturazione produttiva e, soprattutto, dell’incapacità dell’azienda di marciare a pieno regime sia nel comparto veicoli industriali che in quello automobilistico.
L’inizio delle ostilità in Europa nel settembre del 1939, con le conseguenti limitazioni alla circolazione delle auto private, va ad aggravare una situazione caratterizzata, dati i cospicui crediti vantati nei confronti di uno Stato-cliente tutt’altro che solerte nei pagamenti, da una scarsa liquidità che si rivelerà determinante per le sorti della società.
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III. 1940-1950: la crisi dell’impresa familiare
1. La guerra e le sue eredità

Vincenzo Lancia muore all’improvviso il 15 febbraio 1937 stroncato, con ogni probabilità, dalla incondizionata passione per la sua impresa e le sue automobili; la moglie Adele, che con i tre figli detiene il 69% dei titoli azionari, subentra come presidente ed amministratore unico della società. Nella guida dell’azienda la affiancano alcuni stretti collaboratori del marito: Manlio Gracco de Lay sovrintende alla funzione tecnica, Ernesto Zorzoli a quella finanziaria e Oscar Ravà – fino al suo allontanamento per motivi razziali nel 1938 – a quella commerciale. Nel gennaio del 1938 arriva alla Lancia Vittorio Jano, già progettista dell’Alfa Romeo, che, accanto al direttore tecnico ingegner Vaccarino riveste il ruolo di progettista leader della casa. Eppure, dopo il 1937 l’esigenza di una vera guida che accompagni l’impresa in quella fase delicata in cui, accanto alla gestione di modelli e ruotines consolidate, appare necessario valutare le sfide poste dalla produzione dei veicoli pesanti, dalla costruzione del nuovo stabilimento, dal contatto con il potere politico spinge Adele Lancia a contattare, senza successo, per il ruolo di direttore generale, dapprima Ugo Gobbato dell’Alfa Romeo e Gaudenzio Bono, della Spa.
E ancora, indice del venir meno di un’autorità carismatica, oltre che la pressione creata dagli avvenimenti bellici, appare quell’intensa opera di formalizzazione delle strutture aziendali realizzata fra il 1941 e il 1943, con l’introduzione di un consiglio di amministrazione composto da Adele Lancia, Pompeo Vaccarossi e tre manager, una riorganizzazione delle filiali e della funzione commerciale, la definizione di un organigramma per la sede di Bolzano, la riforma della direzione tecnica e ridefinizione dell’intero disegno organizzativo con una direzione generale che coordina direzioni settoriali, secondo una struttura di tipo funzionale.
In quegli stessi anni vengono maturando una serie di quadri aziendali formatisi in azienda – tra cui spicca la figura di Cesare Girella, dal 1944 direttore dello stabilimento di Torino – che garantiranno l’assoluta serietà amministrativa e il mantenimento degli standard qualitativi voluti da Vincenzo Lancia lungo gli anni Cinquanta e Sessanta.
Tuttavia, nessuno di essi svolgerà un ruolo di tipo imprenditoriale né occuperà posizioni di responsabilità tali da elaborare e concretizzare i cambiamenti di indirizzo gestionale e produttivo che le condizioni del dopoguerra avrebbero richiesto.
In definitiva, fino all’ingresso del figlio di Vincenzo, Gianni, che alla fine della guerra era solo ventunenne, la Lancia appare un’azienda acefala, retta da valori interni saldamente radicati e collaudati, ma di certo carente nella risorsa imprenditoriale.
A partire dal 1940, quando il Paese entra in guerra, la produzione di automobili – l’Aprilia, l’Ardea e l’Artena – diminuisce costantemente per lasciare spazio ai camion della serie Ro con motore diesel o a benzina, adibiti quasi esclusivamente ad usi militari.
Tuttavia, a partire dall’aprile 1941 vengono progettate una serie di nuove costruzioni necessarie alla produzione di autovetture nel dopoguerra: un fabbricato per gli stampi e il macchinario, la sopraelevazione della carrozzeria, edifici per la bulloneria e viteria, l’ampliamento della centrale termica. La minaccia dei bombardamenti – che induce a decidere il trasloco della sezione veicoli industriali a Bolzano – il blocco della costruzione di automobili da turismo decretato dal governo, ma soprattutto il mutamento di indirizzo produttivo imposto dalle autorità militari che ora richiedono di sospendere gradualmente la produzione di autocarri pesanti e di rivolgersi a quelli di tipi medi e leggeri, incidono pesantemente sulle capacità produttive e sul fatturato.I bombardamenti, le carenze di materie prime e di energia elettrica, i trasferimenti delle lavorazioni e della direzione tecnica fuori Torino, vedono un 1943 in perdita, nonostante dopo l’armistizio la Lancia fornisca i comandi e gli enti militari tedeschi. I due anni successivi lasciano l’azienda in uno stato di grave precarietà.
Nei primi mesi successivi all’aprile 1945 sembra esplodere la domanda di automobili e con essa una ripresa rapidissima. A fine 1946, funzionano pienamente i reparti destinati alle vetture da turismo e nel 1947 l’efficienza degli impianti ha ormai raggiunto l’85% del livello prebellico: anche la produzione è in ripresa, con 3.451 vetture uscite nel 1947 contro le 88 del 1945.
Ma la liquidazione del parco di veicoli dell’A.R.A.R., che pone sul mercato migliaia di veicoli industriali, crea gravi difficoltà all’azienda che, nel 1948, sospende le lavorazioni di veicoli industriali. Questa certamente è una delle ragioni della crisi, ma non certo l’unica: un esubero di manodopera, una conflittualità che sfocerà nella serrata del giugno 1948, una non chiara divisione del lavoro tra gli stabilimenti di Torino e di Bolzano aggravavano il quadro di una problematica situazione finanziaria caratterizzata da elevatissimi debiti verso le banche.
L’occasione offerta alla Lancia per chiudere definitivamente la fase della ricostruzione e compiere un passo in avanti verso un riassetto tecnico/produttivo è data dai quattro finanziamenti ottenuti – nell’ambito della grande operazione di sostegno nei confronti dell’economia europea realizzata nel dopoguerra dagli Stati Uniti – tra il 1948 e il 1951, per una somma di 3.120.000 dollari, pari a quasi due miliardi di lire.
Nell’ottobre 1948, la direzione generale della società viene assunta da Gianni Lancia, già “destinato” alla guida dell’impresa: unico figlio maschio, appassionato di meccanica, in procinto di laurearsi in ingegneria meccanica all’Università di Pisa.
La società presenta seri problemi: caduta della produttività rispetto agli anni Trenta, sovraoccupazione, mancata divisione dei compiti fra Torino e Bolzano, rete commerciale che, sostanzialmente, risale all’anteguerra.
La nuova direzione deve quindi decidere se riproporre il vecchio cliché dell’appello alla clientela fedele al prodotto accurato o puntare sulla produzione di utilitarie e se proseguire o meno sulla strada dei veicoli industriali.

2. Un passaggio cruciale: il progetto ECA e le nuove commesse militari all’inizio degli anni ‘50

Gli anni Quaranta si chiudono annunciando una ormai imminente più ampia diffusione dell’automobile nel paese. Il quadro è quello di una Fiat avviata verso la produzione di vetture piccole – le 500 e le 1100 non concorrenziali rispetto alle auto statunitensi di grandi dimensioni e cilindrata – e verso un profondo rinnovamento impiantistico, di un’Alfa Romeo incanalata nella gestione Finmeccanica, che dà il via ad una produzione industriale e di un vivace mercato che assorbendo le 100.000 unità prodotte, manifesta però aspettative nei confronti di un modello di utilitaria che sfondi la barriera di un automobilismo ancora d’élite. La Lancia, che nel 1950 propone l’Aurelia, coltiva in questi anni il proposito di realizzare una vettura di 1.000cc e un autocarro di 2.500cc; a tale scopo richiede all’European Cooperation Administration, l’agenzia che decideva l’erogazione degli aiuti previsti dal piano Marshall, un finanziamento che, previsto per 1 miliardo e 385 milioni, garantirebbe l’ampliamento dei reparti produttivi e l’acquisto di nuovi macchinari e materie prime, l’assunzione di 500-600 operai e, soprattutto, la produzione in serie di macchine di qualità.
Se questo finanziamento non viene erogato, fra il 1951 e il 1953 la Lancia ottiene però una serie di consistenti commesse pubbliche, prevalentemente militari, che in qualche misura la riportano alle vecchie strategie degli anni fra le due guerre, con un’incidenza dei veicoli pesanti pari al 34% del totale lungo gli anni Cinquanta.
Sulla favorevole posizione dello Stato nei confronti dell’impresa pesano indubbiamente motivazioni politiche legate alla particolare funzione di “equilibrio etnico” esercitata nell’area altoatesina dallo stabilimento di Bolzano, che, tuttavia vive costantemente sotto la minaccia di chiusura per la crisi del settore dei veicoli industriali e che, negli anni seguenti, si rivelerà un problema di non poco conto per l’azienda.

3. Nobiltà e miserie

Nell’aprile del 1953, la Lancia presenta una vettura di medie-piccole dimensioni con motore di 1.090cc che va a sostituire l’Ardea uscita quattordici anni prima; è l’Appia, prodotta in tre serie e venduta, fra 1953 e il 1963, per quasi 100.000 esemplari ma, fino al 1958 prodotta in sole 27 unità al giorno. Lo scarso successo commerciale sembra risiedere nel prezzo troppo elevato e nella presenza sul mercato di due forti rivali quali la Fiat 1100/103 e la Giulietta Alfa Romeo, ma soprattutto nella scarsa qualità della vettura.
In questi anni, contravvenendo ad una tradizione che l’aveva vista assumere un atteggiamento di prudente autocontrollo nei confronti delle competizioni, la Lancia è nel pieno di un’intensa stagione di impegno sportivo, in coincidenza con l’apparizione, nel 1950, di un’altra pietra miliare della tecnica Lancia, l’Aurelia.
Nonostante le carenze del sistema frenante, la vettura rappresenta l’automobile più innovativa del suo tempo, la prima a mondo ad utilizzare un motore a V a 6 cilindri, in seguito assai imitato, allo studio fin dagli anni della guerra. Ed è con un’Aurelia da due litri che la Lancia è seconda assoluta alla Mille Miglia del 1951, dietro una Ferrari di cilindrata doppia.
Queste, oltre probabilmente alla volontà di Gianni Lancia di lasciare una traccia nella storia dell’azienda e nell’automobilismo italiano al pari del padre, le ragioni che spingono la società a costituire una Squadra corse.
Dal modello tipo D, pronta per la Mille Miglia nel 1953, all’esordio in formula uno con Ascari e Villoresi, strappati alla Ferrari, nell’anno successivo, la Lancia consegue risultati di rilievo non solo sul piano sportivo, ma anche su quello tecnico e progettistico.
I riconoscimenti per gli esiti positivi non attenuano tuttavia l’impressione di improvvisazione, di scarsa coerenza, in definitiva di irrazionalità che si riceve considerando l’intero episodio dal punto di vista imprenditoriale.
Ai successi sportivi non corrisponde infatti un altrettanto vigore sul piano commerciale e una stretta congruenza con la strategia dell’impresa: date le risorse tecniche e finanziarie è infatti impossibile produrre al tempo stesso modelli da competizione e vetture per mantenere la quota di mercato controllata prima della guerra.
Se le vittorie – il Gran premio del Valentino del 1955 – si alternano ad alcune débâcle – l’uscita di strada delle tre vetture Lancia al Gran premio di Argentina del 1955, causate dalle deficienze del sistema frenante – la definitiva sconfitta della scommessa di Gianni Lancia matura al Gran premio d’Europa del 1955, dove la Lancia guidata da Ascari, dopo aver condotto la corsa, esce di strada inabissandosi nelle acque del porto di Montecarlo.
Nell’arco di breve tempo la morte di Ascari, la dichiarazione ufficiale dell’azienda di rinunciare all’attività agonistica – con la cessione alla Ferrari del parco auto e delle attrezzature – e la partenza per il Sud America di Gianni Lancia, che abbandona la direzione dell’impresa, preludono al passaggio in altre mani della proprietà.
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Re: Lancia 1906-1969

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4. Navigare a vista

L’avvicendamento ai vertici della società vede l’ingresso di Carlo Pesenti, che, come sua abitudine nei confronti delle aziende controllate ma esterne al nucleo centrale dei suoi interessi, decide di delegarne la guida.
Se Adele Lancia mantiene la carica – del tutto onorifica – di presidente sino al 1958, la responsabilità effettiva della società è nelle mani dell’amministratore delegato, l’avvocato milanese Aldo Panigadi, già consigliere di amministrazione di alcune aziende del gruppo Pesenti, e già consulente di Lancia.
Il nuovo direttore tecnico Antonio Fessia, già direttore dell’ufficio tecnico centrale costruzioni meccaniche della Fiat, poi consulente per la Ducati, la Pirelli, la Deutsche Fiat, è una delle figure di maggior rilievo della progettazione automobilistica italiana: al suo nome sono legate la Balilla e la Topolino. Il sodalizio fra Panigadi e Fessia, unanimemente riconosciuto tanto abile quanto poco capace di collaborare con i suoi pari, si altera definitivamente nel 1958, al punto che il primo, presentato per la seconda volta agli azionisti il bilancio in perdita, si dimette dalla società.
In effetti, al di là dei contrasti personali, le vendite all’estero si mantengono su livelli modesti e la Flaminia, il modello di fascia alta presentato in questi anni, non presenta la trascinante innovatività delle precedenti vetture Lancia e non è in grado di sostenere il confronto internazionale con i tipi comparabili della Mercedes e della Jaguar.
Nel settore dei veicoli industriali, che pure mantengono livelli produttivi di tutto rispetto, si assiste ad una frantumazione in un numero eccessivo di modelli che, unita ad una mancata ristrutturazione tecnico/organizzativa, dà luogo ad una bassa produttività. La quota del 10% dei nuovi veicoli iscritti annualmente al Pubblico Registro Automobilistico, attorno alla quale la Lancia si assestava sino al 1950, è più che dimezzata nel 1957.

IV. La Lancia di Carlo Pesenti: un inarrestabile declino 1958-1969
1. Il grande balzo dell’automobilismo italiano e le sue conseguenze per le imprese di nicchia

Il 1950 appare una sorta di spartiacque per l’industria automobilistica nazionale; negli anni che seguono il mercato invia segnali inequivocabili sulla esigenza di motorizzazione che, in mancanza di una vera utilitaria, si concretizzano in un vertiginoso aumento della domanda di motoveicoli. Dal 1963, viene inoltre varcata definitivamente la soglia del milione di unità prodotte e, nel 1969, circolano in Italia 9.173.699 autovetture, una ogni 5,4 abitanti.
Congiunture economiche sfavorevoli quali, ad esempio, la guerra di Corea, che provoca un rialzo medio del 10% dei prezzi delle vetture e un calo delle unità fabbricate, o l’aumento dell’imposta sulla benzina, l’inasprimento della tassazione progressiva sulle cilindrate e l’imposizione del limite a 12 mesi per l’acquisto rateale, decisi nel 1964, non si oppongono a questa spettacolare ascesa.
In totale, fra il 1961 e il 1966, viene fabbricato il doppio dei veicoli rispetto al decennio precedente. Se indubbia è la perdurante azione di ostacolo al settore da parte del potere politico, va rilevato che su di esso agiscono le sollecitazioni della potente lobby automobilistica che, fra l’altro, ottiene il rinvio dell’approvazione dei limiti di velocità e delle norme di sicurezza, ritenute troppo vincolanti per le imprese, un rallentamento dell’applicazione delle disposizioni comunitarie sull’abbattimento delle barriere doganali insieme ad una penalizzazione del trasporto ferroviario.
Va inoltre sottolineato il fatto che lo Stato, attraverso la Società Autostrade dell’IRI, si assume il carico maggiore dello sviluppo della rete autostradale.
Dalla metà degli anni Cinquanta, l’offerta asseconda con efficacia la favorevole tendenza della domanda; il quadro è dominato dalla Fiat, ormai avviata verso un fordismo senza riserve per strategie, investimenti, organizzazione e livelli produttivi e impegnata, dopo il successo delle utilitarie 600 e nuova 500, in una politica di diversificazione verso i segmenti medio-alti. Non è un caso se Carlo Pesenti, che dal 1958 assume la vice-presidenza della società intenzionato ad occuparsene più direttamente, incontra i massimi dirigenti della Fiat per saggiarne l’atteggiamento nei confronti dell’impresa minore e con l’intento di proporre un accordo che, ferma restando la concorrenza sulla cilindrata 1100, preveda che la Fiat si concentri sulle cilindrate inferiori e la Lancia su quelle superiori.
Di fatto, negli anni successivi, la Fiat produce una lunga serie i vetture di cilindrata medio-alta: le 1300 e le 1500 in particolare costituiscono una possibile alternativa per quanti non ritengono adeguato il rapporto prezzo-qualità dei modelli Lancia. Ma la vera rivale della Lancia è l’Alfa Romeo che, puntando sugli stessi segmenti di mercato, ottiene un’incontestabile affermazione a cavallo del 1960, proseguendo nell’intento di conferire una dimensione industriale alla sua produzione automobilistica. Il successo della Giulietta nel 1954 e della Giulia nel 1962, prodotta nel nuovo stabilimento di Arese, avvia l’Alfa Romeo verso il secondo posto fra le case automobilistiche italiane.
Come l’Alfa Romeo, la Lancia è un’impresa di nicchia che deve però confrontarsi con dimensioni del mercato del tutto inusitate rispetto al passato: nel quinquennio 1958-1962, ad esempio, essa si trova a produrre tante vetture quante nei cinquant’anni precedenti. Questo salto quantitativo dà luogo ad una forte pressione per il cambiamento delle strutture aziendali ed esige una diversa qualità gestionale ed organizzativa, oltre che una profonda riforma dell’organizzazione commerciale. Questo ingresso in una prospettiva fordiana da seconda rivoluzione industriale che non consente più il riferimento ad una domanda composta da poche migliaia di affezionati intenditori, richiede la capacità di coniugare strategia di differenziazione e produzione di massa, pena la scomparsa in breve tempo dalla mappa del settore.

2. Risanare la Lancia: ci prova un vero manager

Il consiglio di amministrazione che si insedia nel maggio del 1958 sancisce la cesura con l’assetto proprietario che in sostanza aveva caratterizzato l’impresa fin dalle origini. Accanto al vicepresidente Carlo Pesenti siedono quindi, oltre a Ferdinando Gatta, marito di una figlia di Vincenzo Lancia, che rappresenta gli eredi che non avevano voluto cedere le proprie quote, Herman Budich e Ernst Jaeger dell’alleata Union de Banques Suisses.
La guida operativa della società viene affidata all’ingegnere piemontese Eraldo Fidanza che concentra in sé le cariche di presidente, amministratore delegato e direttore generale; la sua esperienza alla direzione della Terni, durante la quale aveva affrontato gravi problemi di ristrutturazione del vasto complesso polisettoriale, lo fa apparire la persona giusta per affrontare, con una terapia d’urto, il risanamento della Lancia.
Fidanza rileva immediatamente le carenze delle precedenti gestioni nell’esuberanza di personale, nell’assenza di rigidi criteri di economia, nell’avventatezza della decisione di partecipare a competizioni sportive.
Il suo programma di ristrutturazione risulta imperniato su alcuni punti fermi: una reale divisione del lavoro fra Torino, da adibire alle vetture, e Bolzano, che assumerebbe il carattere di vero e proprio stabilimento di produzione completa di automezzi ed autobus; la costruzione di un nuovo stabilimento in cui concentrare le operazioni di stampaggio a freddo delle lamiere, formazione delle scocche, assemblaggio, verniciatura e collaudo; un vasto rinnovamento del macchinario; un effettivo miglioramento della rete commerciale e di assistenza ai clienti.
L’investimento, 12 miliardi in un triennio, consentirebbe di ottenere le giuste dimensioni di scala stimate in una capacità produttiva di circa 300 vetture al giorno, ma richiede l’immediata riduzione del monte salari e stipendi e la convivenza con un livello di indebitamento a cui la società non è abituata.
Le “contromisure” di Fidanza consistono in numerosi licenziamenti e nell’annullamento, deliberato nel marzo del 1959, di 500.000 azioni del valore di 6.000 lire ciascuna: 42.795 appartengono agli eredi Lancia, che scompaiono così definitivamente dalla proprietà dell’azienda.
Il capitale viene contemporaneamente riportato a sei miliardi con la sottoscrizione di 450.000 azioni da parte della Union de Banques Suisses e di 50.000 dal Credito Lombardo, banca controllata da Pesenti, mentre nella compagine societaria si segnala la presenza di circa 40 mila azioni intestate alla finanziaria del Vaticano, l’Istituto per le Opere di Religione, il cui peso reale risulterà in seguito maggiore.
Grazie ai 12 miliardi di denaro fresco raccolti mediante un aumento di capitale, un prestito obbligazionario e un mutuo Imi, inizia la ristrutturazione impiantistica, la concentrazione a Bolzano delle lavorazioni relative ai veicoli industriali, la costruzione del nuovo stabilimento di Chivasso e il potenziamento della rete delle filiali.
I risultati positivi si concretizzano in un aumento della produzione di autovetture e degli autocarri e in un incremento delle vendite, anche all’estero. L’intervento di Fidanza incide anche sull’organigramma aziendale, ridefinito, nel novembre del 1958, secondo un disegno organizzativo che non si discosta troppo dai criteri imperniati sulle funzioni aziendali adottati nei primi anni Quaranta ma che presenta una contraddizione fondamentale che sarà fatale all’azienda.
Al rafforzamento della presidenza-direzione generale e del suo potere di controllo effettuato mediante organi di staff corrisponde una forte autonomia della direzione centrale tecnica, ancora capeggiata da un Antonio Fessia sempre carismatico agli occhi di Pesenti.
Ancora una volta, il conflitto fra due robuste personalità esplode con tutte le conseguenze deleterie per l’azienda e si sviluppa attorno alla forte spinta verso una razionalizzazione e standardizzazione, promossa da Fidanza ed interpretata da Fessia come un venir meno della tradizione aziendale fondata sulla qualità del prodotto e l’assistenza al cliente. In effetti l’amministratore delegato intende puntare – per evidenti risparmi – sulla realizzazione di una quarta serie dell’Appia che, dopo incerti inizi sullo scorcio degli anni Cinquanta, sta incontrando un notevole favore del pubblico; Fessia è invece restio a riproporre una vettura che, per quanto da egli stesso modificata e migliorata, porta la firma di Vittorio Jano.
Il conflitto è destinato ad esacerbarsi fino all’epilogo della primavera del 1960, quando l’orgoglioso manager, dopo aver enumerato gli innegabili traguardi raggiunti nei ventidue mesi trascorsi alla guida dell’impresa, deve constatare che l’appello di Fessia alla tradizione e alla qualità Lancia violate, ha toccato corde molto sensibili per la proprietà. Le sue dimissioni vengono freddamente accettate dal consiglio di amministrazione del 31 maggio.
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Re: Lancia 1906-1969

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3. Investimenti e debiti

Uscito di scena Fidanza, nessuno ne eredita la concentrazione di cariche ai vertici dell’impresa. Alla presidenza è eletto Massimo Spada, grand commis della finanza vaticana, mentre la direzione generale è affidata a Guido Calbiani, docente di metallurgia, con una brillante carriera presso la Falck, l’Ilva, la Breda e la Dalmine; ad essi si aggiunge un gruppo di manager di alto livello che non indeboliscono le organizational capabilities dell’impresa né creano dissonanze all’interno del management: Alfredo Della Seta, proveniente dal settore del cemento, Luigi Rolando, fra i maggiori tecnici del gruppo Eni, Giuseppe Albricci, formatosi alla scuola di Ugo Gobbato all’Alfa Romeo e fraterno amico di Pesenti.
Dopo pochi anni dalla svolta del 1958, le previsioni sulle risorse finanziarie occorrenti per la trasformazione dell’azienda si rivelano poco realistiche: nell’ottobre 1962 i 12 miliardi richiesti sono diventati 31.
Ancora valide risultano invece le linee tracciate da Fidanza per il riorientamento e sviluppo delle capacità produttive; nel 1960 la divisione del lavoro fra i due stabilimenti è compiuta e Bolzano, oltre a provvedere alla costruzione di veicoli pesanti civili e militari, è in grado di fornire clienti esterni di fusioni in ghisa e alluminio.
Nello stabilimento di Torino hanno invece luogo lo stampaggio a caldo e i trattamenti termici, la fabbricazione e il montaggio dei gruppi meccanici delle vetture e trovano collocazione le attività di laboratori, costruzioni sperimentali, esperienze e collaudi; l’unità di Chivasso è considerata in funzione dal giugno 1963, anche se già nel luglio dell’anno precedente si realizzano nei suoi impianti alcune fasi di preparazione della Flavia, presentata nel 1960.
A completare il potenziamento dell’attività produttiva, nell’aprile del 1961 vengono acquistate due carrozzerie e una ditta specializzata nella riparazione di macchinari e nella costruzione di modelli.
Sul fronte della rete di vendita si assiste al potenziamento e all’incremento delle filiali ma soprattutto all’attivazione dei centri di assistenza, prima inesistenti, e ad una maggiore concentrazione degli sforzi all’estero.
Dal 1959 al 1964, si spendono complessivamente circa 11 miliardi in immobili industriali e 33 in impianti e macchinari attingendo, oltre che da un aumento di capitale a 10 miliardi 800 milioni nel 1962, da debiti a medio e lungo termine nei confronti dell’Imi, di Mediobanca e dell’Union de Banques Suisses; crescono anche i debiti verso i fornitori, che passano dai 3 miliardi del 1958 ai 26 del 1963. Ma, come si vedrà, un’esposizione così consistente può essere affrontata solo da un’impresa che goda di impianti in marcia a ritmo pieno e di un fluido collegamento con il mercato.
La nuova Flavia, prima vettura italiana a trazione anteriore – il sogno di Antonio Fessia – e con i freni a disco su tutte e quattro le ruote, è seguita tre anni dopo dalla Fulvia, che ne ricalca le caratteristiche tecniche di base e che riscuote un significativo successo attestato dai 300.000 esemplari venduti.
Altri successi nel campo degli autocarri e dei furgoni confermano il momento favorevole per la Lancia, all’interno della tendenza positiva che investe l’intero settore automobilistico italiano, ma non riescono a cancellare le critiche solevate dal pubblico nei confronti delle prime versioni dei nuovi modelli di Fessia: innovativi, comodi, sicuri, mancano però del fondamentale requisito dell’adeguato rapporto peso-potenza. La direzione tecnica, però, continua ad essere una “repubblica a sé” e Fessia, sebbene cooptato in consiglio di amministrazione nel gennaio del 1964, rifiuta di assumere quel ruolo imprenditoriale che lo stesso Pesenti può gestire solo a tempo parziale.

4. Invendute a migliaia

Dopo la grande stagione del miracolo economico, il 1964 è l’anno nero dell’automobilismo italiano: la produzione di vetture, in particolare quelle da 1.000 a 1500cc, il segmento al quale la Lancia è maggiormente interessata, si restringe considerevolmente. La casa torinese vede in breve tempo crollare la produzione da 44.298 a 31.540 unità e il fatturato da 72 miliardi e 91 milioni a 49 e 682. Ancor più preoccupante è la crescita della divaricazione fra vendite e produzione, che raggiunge punte del 20% e che coinvolge prevalentemente le Fulvia ma che non risparmia i veicoli industriali.
Nel comparto, del resto, la Lancia ha visto via via ridurre il proprio peso: da un 16,5% delle immatricolazioni di autocarri ed autobus del 1948 la società era infatti passata al 5,6% del 1956 e al 3,5% nel pur favorevole 1963. Sebbene le difficoltà nel settore autobus ed autocarri siano attribuite dall’azienda alla paralisi del ciclo edilizio e alla aleggiante minaccia di nazionalizzazione dei trasporti collettivi e, non quelli dei veicoli militari, alla “sfortunata” mancata aggiudicazione del concorso bandito dalla Nato, si possono individuare le vere ragioni di questo insuccesso in una errata scelta imprenditoriale.
Politiche di regolamentazione contraddittorie, temporanea grave caduta del mercato, misure anticongiunturali, aggravio del costo del lavoro, non sono infatti sufficienti a dar conto di una débâcle che compromette gli sforzi intrapresi dal 1958. In effetti gli impianti sono utilizzati attorno al 66%, ancora carenti i collegamenti tra lo stabilimento di Torino e quello di Chivasso – con frequenti sovrapposizioni – mentre l’organizzazione commerciale non garantisce l’indispensabile legame fra produzione e mercati: in questo quadro di mancato raggiungimento della scala efficiente minima, all’aumento dei debiti l’impresa può solo contrapporre l’abbattimento dei costi unitari.
Pesenti è costretto ad ammettere che il passaggio ad una vera e propria trasformazione in senso industriale non è ancora avvenuto e che l’assetto organizzativo, fondato sulla costruzione di tutti i pezzi dell’automobile e quindi adatto ad una produzione numericamente limitata e con alti profitti, male si presta ai grandi numeri peraltro imposti dalla scala dei nuovi impianti.

5. Irresistibilmente verso corso Marconi

Gli investimenti effettuati nel quadriennio 1965-1969 non mirano a creare nuovi reparti quanto piuttosto a completare quelli già esistenti ma assorbono, a riprova che le trasformazioni introdotte a partire dal 1958 non avevano raggiunto l’obiettivo prefissato, consistenti mezzi. La società riesce tuttavia ad ottenere solo prestiti a breve dalla Banca Commerciale Italiana, dal Credito Italiano, dal Banco di Roma e dal Banco di Napoli che, attraverso una filiale di Mediobanca, richiedono però a titolo di garanzia i certificati di origine delle vetture prodotte.
Dopo il tonfo del 1964, la ripresa non è repentina e comunque orientata verso la piccola cilindrata che, in questi anni, incide per il 65% del totale; il mercato impone quindi alla Lancia di orientarsi ancor più decisamente verso la produzione di massa e di puntare quindi sulle vendite della Fulvia che, nel 1966 tocca il 92,6% dei modelli prodotti.
I traguardi produttivi raggiunti nel 1963 sembrano invece lontani per lo stabilimento di Bolzano che continua a presentare forti quantità di invenduto e che vede sfumare, a seguito del colpo di stato che rovescia Sukarno, una importante commessa del governo indonesiano per la fornitura di 1.000 autocarri Esadelta, 3.000 camioncini Superjolly, 1.000 Fulvia e 920 Flavia.
Ma, nel 1968, un nuovo tracollo porta la Lancia al 2,4% della produzione nazionale, ormai superata da Alfa Romeo, Innocenti, Autobianchi e Nsu e insidiata da Simca ed Opel. Con un peso dei debiti verso banche e fornitori ormai soverchiante, la Lancia si presenta nei fatti, e ancora una volta, come un’azienda acefala: Fessia muore nell’agosto del 1968 e Pesenti, impegnato ad affrontare l’attacco di Sindona all’Italmobiliare, avvia contatti con le maggiori case tedesche per la cessione dello stabilimento di Bolzano.
Ma una radicale soluzione, tramontata l’ipotesi di un salvataggio da parte dell’Alfa Romeo, troppo impegnata nel progetto Alfa-Sud, può passare solo attraverso un intervento della Fiat che, tra l’ottobre e il novembre del 1969, acquisisce il pacchetto azionario della società.
Se è vero che nel ventennio successivo al 1969 un’impresa di nicchia come la Lancia non sarebbe probabilmente sopravvissuta come impresa indipendente in un mercato in cui avrebbe dominato la produzione di massa, il passaggio alla Fiat, per il modo e per i tempi, non appare affatto inevitabile, anche se risponde a ragioni di carattere strategico-difensive rispetto al rafforzamento di un rivale nazionale e alla presenza in Italia di qualche impresa straniera.
Negli anni fra le due guerre la Lancia aveva conquistato un quasi monopolio nel segmento medio-alto, producendo vetture veloci ma affidabili, resistenti ma comode e ben rifinite, innovative ma attente alle esigenze del mercato; aveva unificato, attorno al valore “qualità del prodotto”, gli apporti di tecnici, progettisti ed operai, creando una cultura d’impresa e un forte senso di appartenenza.
La scomparsa del suo fondatore, tuttavia, avvenuta in una fase di svolta degli orientamenti produttivi e di mercato della società, il peso delle commesse pubbliche dopo la seconda metà degli anni Trenta, che aveva impresso alle scelte imprenditoriali e tecniche direzioni che si sarebbero rilevate poco azzeccate, ma soprattutto l’assenza di un vero imprenditore alla guida della società disperdono i tentativi di realizzare il passaggio ad una produzione industriale.
Tentativi falliti anche nel periodo successivo, quando un industriale e finanziere estraneo al settore automobilistico aveva perso anni decisivi prima di intervenire con vigore e, soprattutto, aveva lasciato l’azienda senza una vera guida.
Il passaggio della Lancia a corso Marconi, rappresenta certamente per la Fiat il rafforzamento di un importante segmento del mercato ma anche l’incontro con una cultura d’impresa notevolmente diversa. Una sfida di non poco conto anche per la maggiore azienda automobilistica italiana.
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